lunedì 26 settembre 2016

LETTERA AI GENITORI CHE CHIEDONO I SACRAMENTI PER I LORO FIGLI






Carissimi mamma e papà,
avete bussato alla porta della Chiesa per chiedere i sacramenti per i vostri figli: a nome della comunità vi ringrazio per questo passo, perché significa che per voi la nostra proposta è positiva.
Ne approfitto, allora, per spiegarvi il gesto che avete compiuto.

Bussare alla chiesa per chiedere i sacramenti dei vostri figli significa, prima di tutto, il desiderio di permettere loro di entrare a far parte della nostra comunità, del nostro cammino. Noi siamo una comunità di persone che cercano di vivere il messaggio di Gesù Cristo. Per noi questo messaggio è una proposta di vita nuova, che trova nel Vangelo i suoi contenuti principali. Nella comunità ci sforziamo, pur consapevoli dei nostri limiti, di vivere il più possibile in comunione, cercando di creare ponti di pace con tutti coloro che ci circondano. Desideriamo un mondo di giustizia, per questo lottiamo contro le disuguaglianze, impegnandoci per un mondo più giusto e solidale. Come ci ha insegnato il Signore Gesù siamo attenti ai nostri fratelli e sorelle più deboli: ci organizziamo per aiutare i poveri (Caritas), per visitare i malati e le persone sole (ministri straordinari dell’Eucarestia). Nelle nostre strutture (Oratorio) accogliamo tutti i giorni i bambini di ogni nazione e religione, che chiedono aiuto per i compiti o che vogliono trascorrere qualche ora a giocare. Proponiamo ai ragazzi e ai giovani percorsi formativi per crescere in umanità e spiritualità.

Come ci ha chiesto il Signore (Fate questo in memoria di me) ci troviamo alla domenica per ascoltare la sua Parola e alimentarci di Lui. È questo il momento centrale nella comunità e una bambino che chiede di ricevere i sacramenti dovrebbe essere aiutato a capire l’importanza di partecipare. Prepariamo la messa domenicale con molta cura. Durante la settimana (al martedì dalle 21 alle 22 a Roncina) ci troviamo per leggere e meditare le letture della domenica successiva. La messa domenicale è poi animata da canti, da persone che leggono, da gente che si dà da fare affinché tutto proceda bene. Senza la domenica noi non siamo nulla. È una frase molto forte utilizzata dai cristiani delle prime comunità per esprimere l’importanza che loro attribuivano al giorno del Signore. È la domenica che ci dà l’identità di cristiani, perché ci permette di stare con Lui, ascoltare la sua Parola, sentire la sua presenza. Nella nostra comunità tutto nasce e si sviluppa dalla messa della domenica. Per questo più che un obbligo, noi cristiani lo sentiamo come una necessità, una priorità della nostra vita. Come faremmo, infatti, ad affrontare l’egoismo di questo mondo, le cattiverie, le gelosie, le invidie, le ingiustizie se non avessimo la possibilità d’interiorizzare il pensiero del Signore, di stare con Lui, di vivere come Lui e di Lui?

Per questo noi della comunità rimaniamo molto confusi quando constatiamo che i bambini che avevano chiesto di ricevere i sacramenti della comunione e della cresima, non frequentano la messa domenicale. Anche perché ricevere i sacramenti non è un obbligo, ma un desiderio di vivere lo stile del Signore. E allora ci chiediamo: perché chiedete che i vostri figli ricevano i sacramenti e poi non frequentano la comunità e, soprattutto, il giorno del Signore che è la fonte e il culmine di tutta la nostra vita, del nostro cammino? I sacramenti sono i segni che il Signore ha lasciato della sua presenza. Non sono quindi cose che si possono acquistare, ma doni che si possono solo accogliere e li accoglie chi li desidera e li desidera chi vuole seguire il Signore per stare con Lui e vivere di Lui.

La catechesi settimanale e la messa domenicale sono in sintonia tra di loro: l’una ha bisogno dell’altra. Infatti, durante la catechesi proponiamo percorsi che cercano di presentare quello stile di vita di Gesù che poi incontriamo alla messa della domenica.

Carissimo papà e carissima mamma, siamo molto contenti della vostra presenza. Se siete abituati a frequentare, queste parole hanno semplicemente rafforzato la vostra scelta. Se invece, per tanti motivi, non frequentate molto la Chiesa, queste parole hanno l’obiettivo di aiutarvi nel discernimento, nel capire se è proprio questo che volete per i vostri figli. Nel rispetto delle reciproche libertà vorremmo che prendeste sul serio queste parole. Ancora una volta vi diciamo: non siamo una bottega che distribuisce cose, ma una comunità felice di vivere il Vangelo del Signore.

A nome della comunità vi saluto. La pace del Signore sia con voi

Reggio Emilia, 26/09/2016 
Don Paolo Cugini


domenica 25 settembre 2016

ORIENTAMENTI PER L'ANNUNCIO E LA CATECHESI IN ITALIA


SINTESI




INCONTRIAMO GESÙ
 ( CEI - 2014)

Sintesi: Paolo Cugini

Incontriamo Gesù è un documento che vuole orientare la pastorale catechistica per quanto le compete aiutandola a ridefinire i suoi compiti all’interno dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, intesa come orizzonte e processo.

L’obiettivo dell’annuncio e della catechesi è la conversione e la formazione e l’assunzione del pensiero di Cristo: «Pensare secondo Cristo e pensare Cristo attraverso tutte le cose» (San Massimo il Confessore). Per questo l’azione catechistica necessita di legami integranti con l’esperienza celebrativa e con quella caritativa, nonché della valorizzazione di particolari momenti – quali la richiesta del Battesimo, della Confermazione e della prima Comunione – per un cammino di relazione e di incontro con la famiglia, in una prospettiva pastorale attenta a mantenere il carattere popolare dell’esperienza ecclesiale.
Il titolo «Incontriamo Gesù» esprime sinteticamente l’obiettivo cui tende la formazione cristiana: l’incontro di grazia con Gesù. Il verbo posto alla prima persona plurale sottolinea (come nei simboli di fede) la dimensione ecclesiale di questo incontro, intendendo mostrare sia la dimensione del discepolato sia la dinamica della testimonianza.

Incontriamo Gesù vuole aiutare le nostre chiese, oggi, a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, a quarantacinque anni dal DB, nel tempo di una rinnovata evangelizzazione, e dopo l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, a rafforzare una comune azione pastorale nell’ambito della catechesi ed uno slancio comune nell’annuncio del Vangelo.
Il testo presenta un indice assai semplice. Una breve analisi di 1Ts 1-2 accompagna i singoli capitoli: si tratta di un testo denso di significato, probabilmente il più antico del Nuovo Testamento, che mostra come l’avventura dell’evangelizzazione sia una dimensione originaria nonché originante della Chiesa. In quattro capitoli Incontriamo Gesù vuole descrivere l’azione evangelizzatrice dalla comunità cristiana ed il primato della formazione cristiana di adulti e giovani (I cap.), si sofferma sul primo annuncio (II cap.), si concentra sull’Iniziazione cristiana (III cap.), ed infine  evidenzia (IV cap.).

Incontriamo Gesù presenta quattro caratterizzazioni fondamentali. L’assoluta precedenza della catechesi e della formazione cristiana degli adulti, e, all’interno di essa, del coinvolgimento delle famiglie nella catechesi dei piccoli. Si tratta di valorizzare tutta l’azione formativa (che comprende anche liturgia e testimonianza della carità) in chiave «adulta». L’ispirazione catecumenale della catechesi con una esplicita attenzione all’Iniziazione cristiana degli adulti (Catecumenato) ed insieme una forte attenzione al dono di grazia operato da Dio, alla scelta di fede, agli itinerari, ai riti, alle celebrazioni e ai passaggi che scandiscono il cammino. La formazione di evangelizzatori e catechisti e – in forma curriculare e permanente – la formazione dei presbiteri e dei diaconi. La proposta mistagogica ai preadolescenti, agli adolescenti ed ai giovani, caratterizzata da una non scontata continuità con la catechesi per l’Iniziazione cristiana ma anche dalla considerazione della realtà di «nuovi inizi» esistenziali.
Sono molto sottolineate alcune dimensioni. L’invito all’ascolto/lettura della Scrittura nella Chiesa, anche con attenzioni ad armonizzare tale prospettiva con un corretto approccio liturgico e catechistico. La dimensione kerigmatica, in chiave fortemente cristocentrica, dell’annuncio e della catechesi viene sottolineata come “cuore” dell’azione evangelizzatrice. La proposta che i padrini e le madrine siano figure veramente «scelte, qualificate e valorizzate».

La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la Parola di Dio “diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale”. La Parola di Dio ascoltata e celebrata, soprattutto nell’Eucaristia, alimenta e rafforza interiormente i cristiani e li rende capaci di un’autentica testimonianza evangelica nella vita quotidiana. (…) Lo studio della Sacra Scrittura dev’essere una porta aperta a tutti i credenti. È fondamentale che la Parola rivelata fecondi radicalmente la catechesi e tutti gli sforzi per trasmettere la fede.
I presenti Orientamenti desiderano stimolare una riflessione sulla centralità dell’annuncio, sugli itinerari per chi chiede il Battesimo, sul significato e la fisionomia dei percorsi di iniziazione cristiana dei piccoli e sull’importanza della catechesi in ogni fase della vita. Resta prioritario il riferimento alla famiglia, prima ed insostituibile comunità educante, autentica scuola di Vangelo.

CAPITOLO 1 - ABITARE CON SPERANZA IL NOSTRO TEMPO

La nuova evangelizzazione – dove l’aggettivo «nuova» ci stimola a recuperare, nei doni dello Spirito, energie, volontà, freschezza e ingegno – chiede a tutti i soggetti ecclesiali una verifica dell’azione pastorale, assumendo come punto prospettico il mandato missionario che è all’origine dell’istituzione della Chiesa da parte di Gesù (Mt 28,18-20). 
In concreto, questo esame intende stimolare e potenziare tre attitudini fondamentali:
v   la capacità di discernere, ovvero l'attitudine di porsi, come singoli e come comunità, dentro il presente, convinti che anche in questo tempo è possibile annunciare il Vangelo e vivere la fede cristiana;
v   la capacità di vivere forme di conversione della pastorale e di adesione reale e genuina alla fede cristiana, che testimoniano la forza trasformatrice di Dio nella nostra storia;
v   un chiaro ed esplicito legame con la Chiesa, in grado di renderne visibile il carattere apostolico e missionario.

La comunità cristiana
L’annuncio del Regno di Dio è, secondo la testimonianza unanime dei Vangeli, il centro della predicazione di Gesù, e le comunità cristiane devono sempre più prendere coscienza di essere a servizio del Regno, e delle sue prerogative: la comunione fraterna, la libertà, la pace, la gioia. Compito della Chiesa è, dunque, «portare la buona novella in tutti gli strati dell’umanità e con il suo influsso trasformarla dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa». Questa missione chiede di: 
v   annunciare l’amore di Dio, che si è rivelato in Gesù Cristo crocifisso e risorto e che ci chiama a collaborare per costruire il Regno e introdurre tutti gli uomini nella comunione con Lui;
v   permeare la cultura del nostro tempo con l’annuncio del Vangelo, per rinnovare stili di vita, criteri di giudizio, modelli di comportamento e ridare fondamento cristiano a quei valori che fanno parte integrante della nostra tradizione, ispirata dal cristianesimo; 
v   testimoniare fiducia, gioia e speranza: in tal senso la Chiesa è promotrice di «alleanze educative» con tutti coloro che hanno come finalità lo sviluppo armonico della persona e della società.
Tale dinamismo caratterizza – secondo le parole del Papa – una Chiesa  «in uscita», rendendola «comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano»; la comunità evangelizzatrice, preceduta nell’amore dal Signore, «sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva.
L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro.
I quattro «pilastri» della catechesi 
I contenuti fondamentali della catechesi si possono intravedere anche nel rimando ai quattro «pilastri», che hanno caratterizzato la catechesi nella tradizione cristiana, gli stessi che strutturano il Catechismo della Chiesa Cattolica: il Simbolo, i Sacramenti, il Decalogo, il Padre nostro. Essi si qualificano come passaggi: esprimono il dinamismo dell’uomo cercato da Dio e in ricerca di Dio, per giungere ad una fede professata, celebrata, vissuta e pregata.
Prima sono i catechisti e poi i catechismi; anzi, prima ancora, sono le comunità ecclesiali. Infatti, non è pensabile una buona catechesi senza la partecipazione dell’intera comunità.
La comunità cristiana è l’origine, il luogo e la meta della catechesi. È sempre dalla comunità cristiana che nasce l’annunzio del Vangelo, che invita gli uomini e le donne a convertirsi e a seguire Cristo. Ed è la stessa comunità che accoglie coloro che desiderano conoscere il Signore e impegnarsi in una vita nuova.
In questa prospettiva di comunità, un ruolo primario e fondamentale appartiene alla famiglia cristiana in quanto Chiesa domestica. Essa, proprio come la Chiesa, è «uno spazio in cui il Vangelo è trasmesso e da cui si irradia» e ha una «prerogativa unica: trasmette il Vangelo radicandolo nel contesto di profondi valori umani.
La parrocchia è, senza dubbio, il luogo più significativo, in cui si forma e si manifesta la comunità cristiana. Essa è chiamata a essere una casa fraterna e accogliente, dove i cristiani diventano consapevoli di essere popolo di Dio. Nella parrocchia, infatti, si fondono insieme tutte le differenze umane che vi si trovano e si innestano nell’universalità della Chiesa. Essa è, d’altra parte, l’ambito ordinario dove si nasce e si cresce nella fede.

CAPITOLO 2 – ANNUNCIARE IL VANGELO

Si parla del primo annuncio.

CAPITOLO 3 - INIZIARE, ACCOMPAGNARE E SOSTENERE L’ESPERIENZA DELLA FEDE


Coinvolgimento dei genitori
Si tratta non solo di fissare veri e propri itinerari di catechesi per i genitori, ma anche e soprattutto di responsabilizzarli a partire dalla loro domanda dei Sacramenti. Molte esperienze in questi anni hanno mostrato l’efficacia che deriva dal coinvolgere genitori e figli nella condivisione di alcuni appuntamenti di preghiera, di riflessione e di approfondimento, suffragati da una sussidiazione semplice e mirata, vissuti in ambito domestico, in gruppi, nella comunità.
Fruttuosi sono pure quei metodi che convocano genitori e figli in appuntamenti periodici, dove si approfondisce il medesimo tema con attività diversificate, rimandando poi al confronto in famiglia. Si tratta di non lasciare sole le famiglie, ma di accompagnarle, aiutando i genitori a trasmettere ai loro piccoli uno sguardo credente con cui leggere i momenti della vita.

La celebrazione dei sacramenti
L’iniziazione alla vita cristiana è data dall’unità dei tre sacramenti e la piena partecipazione all’assemblea eucaristica costituisce il culmine a cui tendono il Battesimo e la Confermazione.


CAPITOLO 4 – TESTIMONIARE E NARRARE. FORMARE SERVITORI DEL VANGELO

IDENTITÀ E VOCAZIONE DEI CATECHISTI


 Credenti autentici 
Dal Concilio Vaticano II i contributi volti a specificare il ministero ecclesiale del catechista sono stati molteplici: il Direttorio  Generale per la Catechesi afferma che egli «è intrinsecamente un mediatore che facilita la comunicazione tra le persone e il mistero di Dio e dei soggetti tra loro e con la comunità». La Nota dell’UCN La Formazione dei catechisti per l'Iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi  (2006) afferma che è «una persona trasformata dalla fede che, per questo, rende ragione della propria speranza instaurando con coloro che iniziano il cammino un rapporto di maternità/paternità nella fede dentro un’esperienza comune di fraternità». 
In generale, il catechista è un credente che si colloca dentro il progetto amorevole di Dio e si rende disponibile a seguirlo; come testimone di fede, egli:
v   vive la risposta alla chiamata dentro una comunità, con la quale è unito in modo vitale, che lo convoca e lo invia ad annunciare l’amore di Dio; 
v   è capace di un’identità relazionale, in grado di realizzare sinergie con gli altri agenti dell’educazione; 
v   svolge il compito specifico di promuovere itinerari organici e progressivi per favorire la maturazione globale della fede in un determinato gruppo di interlocutori; 
v   con una certa competenza pastorale, elabora, verifica e confronta costantemente la sua azione educativa nel gruppo dei catechisti e con i presbiteri della comunità; 
v   armonizza i linguaggi della fede – narrativo, biblico, teologico, simbolico-liturgico, simbolico-esperienziale, estetico, argomentativo – per impostare un’azione catechistica che tenga conto del soggetto nella integralità della sua capacità di apprendimento e di comunicazione; 
v   si pone in ascolto degli stimoli e delle provocazioni che provengono dall’ambiente culturale in cui si trova a vivere. 

Uomo e donna della memoria
Il catechista è persona della memoria e della sintesi: dottrina e vita, annuncio e dialogo, accoglienza e testimonianza di fede trovano in lui una vera esperienza di carità: «Chi è il catechista? È colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio; la custodisce in se stesso e la sa risvegliare negli altri.
Nell’ambito di una Chiesa che si fa compagna di viaggio dei contemporanei, il catechista e la catechista evangelizzano narrando la propria esperienza nella fede della comunità ecclesiale. Essi favoriscono l’apertura del cuore alla Parola di Dio, ne stimolano l’apprendimento, ne accompagnano l’interiorizzazione, ne mediano la personalizzazione, sostengono e accompagnano la maturazione della risposta di fede. In tale senso i catechisti sono evangelizzatori, perché chiamati ad annunciare la Parola che li plasma, e sono educatori perché il loro ministero si declina nell’accompagnare l’interiorizzazione della Parola annunciata, nella vita dei soggetti. Per questo ha un rilievo nodale la formazione pastorale nella Chiesa e in specie a livello di annuncio e catechesi: alla formazione vanno riservate le migliori energie in termini di dedizione, competenze e risorse.
 Non si capisce un catechista che non sia creativo. (…) Per essere fedeli, per essere creativi, bisogna saper cambiare. Saper cambiare. E perché devo cambiare? È per adeguarmi alle circostanze nelle quali devo annunziare il Vangelo. Per rimanere con Dio bisogna saper uscire, non aver paura di uscire.

Quattro dimensioni formative: essere, sapere, saper fare, saper stare con
Il Direttorio Generale per la Catechesi indica le dimensioni della formazione del catechista con tre verbi:  essere, sapere e saper fare. A queste ne va aggiunta una quarta: il saper stare con. Esse riguardano, rispettivamente, la maturazione umano-cristiana del catechista e le sue competenze a livello di conoscenze e di abilità metodologica nella trasmissione della fede. In particolare: l’essere sottolinea la maturazione di una vera identità cristiana, fondata su di una spiritualità cristocentrica; il sapere è inteso come intelligenza integrale dei contenuti della fede; il saper fare concerne l’acquisizione di una mentalità educativa e la maturazione della capacità di mediare l’appartenenza alla comunità ecclesiale, di animare il gruppo e di lavorare in équipe; il sapere stare con rinvia alla sfera relazionale, cioè alla capacità di comunicazione e di relazioni educative: «Il cuore del catechista vive sempre questo movimento di “sistole – diastole”: unione con Gesù – incontro con l’altro. Sono le due cose: io mi unisco a Gesù ed esco all’incontro con gli altri.
Il lavoro formativo di cui si è detto ha come meta la maturazione dei catechisti «nell’equilibrio affettivo, nel senso critico, nell’unità interiore, nella capacità di rapporti e di dialogo, nello spirito costruttivo e nel lavoro di gruppo.



martedì 20 settembre 2016

PRETI NUOVI PER IL MONDO NUOVO





RIFLESSIONI SUL MINISTERO PRESBITERALE NELL'EPOCA DELLE UNITA’ PASTORALI

Paolo Cugini

Siamo abituati a vivere il ministero come eroi. Ci mettiamo davanti alla comunità per guidarla con le nostre capacità. Del resto siamo stati formati così. C’è tutta una teologia dell’ordine sacro che ci diceva della potenza del sacramento, della diversità ontologica che provocava in coloro che la ricevevano e ci abbiamo sempre creduto. C’era tutta una spiritualità che faceva leva su questa diversità spingendo il sacerdote giorno dopo giorno in una zona separata, distante dal popolo. Era la spiritualità del prete mangiato, del rapporto verticale con Dio, della vita totalmente immersa nel mistero, come esseri separati dal mondo. La talare nera voleva significare proprio questo e cioè uno stato di permanente morte al mondo, di esclusione e ripudio dei piaceri della vita come segno di una ricerca esclusiva di Dio.  Siamo stati abituati a porci dinnanzi al popolo per guidarlo verso il Regno, con la consapevolezza che era nostro compito farlo in virtù dei poteri ricevuti, delle scelte fatte, della spiritualità ascetica che ci contraddistingueva.  Per questo, la pastorale è sempre stata compito nostro, del prete. I laici dovevano stare al loro posto, vale a dire, non potevano impicciarsi di cose che non li riguardavano. Come facevano, infatti, a capire le cose di Dio se erano per natura e costituzione immersi fino al collo negli affari del mondo? La parrocchia ha vissuto per secoli su questo separazione precisa tra clero e laici. Del resto c’era un’ecclesiologia che sosteneva questa impostazione. Non solo un’ecclesiologia, ma anche un clima culturale che permetteva alla chiesa di controllare il territorio in modo capillare con il sistema parrocchiale. La vocazione sacerdotale rispondeva all’esigenza culturale ed ecclesiologica. Erano così tanti i ragazzi desiderosi di diventare sacerdoti sino a qualche decennio fa che, un giorno, il Vescovo di una diocesi, visitando il seminario disse con i suoi collaboratori: “Dove li metteremo tutti questi giovani preti?”.  

In pochissimi decenni i tempi sono cambiati. I preti sono sempre meno e, molti di questi, sono anziani. Il nuovo contesto culturale sempre più secolarizzato, ha influito nel processo di progressiva scristianizzazione dell’Occidente. I seminari sono sempre più vuoti e molte parrocchie non hanno più un sacerdote fisso. S’iniziano a pensare nuove strategie pastorali per supplire alla scarsità dei sacerdoti. Ci sono vescovi che per mantenere lo schema del prete in ogni parrocchia importa sacerdoti dai paesi dove questi sono in abbondanza. Altri, più coraggiosi, tentano di proporre cammini nuovi, tra i quali le unità pastorali. Il problema che si pone è sempre lo stesso: come controllare il territorio? Come essere presenti sul territorio? La scarsità numerica del clero provoca nuove riflessioni. Si comincia a rivolgere l’attenzione ai laici, a riflettere che il territorio può essere controllato solamente con un loro diretto coinvolgimento. Il nuovo contesto culturale provoca una nuova ecclesiologia, un nuovo modo d’intendere il rapporto tra clero e laici. La nuova ecclesiologia esige anche un nuovo modo d’intendere il ruolo del presbitero. Se, infatti, nell’epoca della cristianità la competenza specifica del presbitero derivava dalla sua coscienza di diversità dal mondo, dalla forza derivata dal sacramento che lo rendeva un essere tutto speciale e, quindi, isolato dal resto del mondo, ora c’è bisogno di qualcosa di nuovo. Dovendo collaborare con i laici per garantire l’evangelizzazione su territori sempre più vasti, la competenza maggiore che un presbitero può avere in un simile contesto è la capacità di lavorare in gruppo, di valorizzare le persone che ha attorno. Dalla dimensione verticale, che tuttavia rimane ancora presente anche se attenuata, si passa a valorizzare la dimensione orizzontale, la capacità empatica, dialogica, collaborativa. Nel nuovo contesto che si apre il presbitero non potrà più permettersi il lusso di essere un uomo separato dal mondo, una sorta di monaco, ma ben inserito nel mondo: uomo tra gli uomini e le donne.

È molto probabile che in questo contesto lo stesso celibato non sarà più il segno caratteristico del presbitero. Le capacità relazionali richieste dal nuovo contesto culturale, maturano molto di più all’interno di una relazione di coppia e famigliare, che nel chiuso di una canonica. La stessa spiritualità che dovrà contraddistinguere la vita nel presbitero nel nuovo contesto pastorale e culturale dovrà per forza cambiare. Non potrà più essere quella dell’uomo mangiato, divorato dai suoi parrocchiani, ma quella dell’uomo che collabora con loro in un progetto unico. Pensare e agire insieme verso un unico obiettivo esige spiritualità e competenze molto differenti di colui che si sente investito da un potere unico e da una missione da portare avanti da solo. Più che di preti eroi con poteri paranormali, nel nuovo contesto culturale ci sarà bisogno di presbiteri che hanno chiara la coscienza che la chiesa non è loro e che non sono stati chiamati a salvare nessuno: ci ha già pensato Cristo una volta per tutte. Certamente nelle comunità bisognerà con calma e pazienza spiegare a certi laici amanti dei preti eroi che i tempi sono cambiati e che, di conseguenza, anche la chiesa sta cambiando. Ce la possiamo fare. 

venerdì 16 settembre 2016

DON TONINO BELLO PROFETA DELLA PACE




SAGRA DI REGINA PACIS
VENERDÌ 16 SETTEMBRE 2016


Relatore: Tonio Dell’Olio (presidente della pro Civitate Chrsitiana)
Sintesi: Paolo Cugini

Don Tonino nasce il 18 marzo nella provincia di Lecce. Suo madre aveva sposato un carabiniere vedovo di tre figli. Dopo la scuola media entra in seminario. Un vescovo invia don Tonino a studiare teologia a Bologna. Rientrato in diocesi fu messo in seminario, prima come vice rettore e poi come rettore. Tonino utilizzava una pedagogia esperienziale utilizzando molto lo sport e, per questo, era molto criticato. Diventa parroco e questa breve esperienza viene caratterizzata dalla vicinanza alle persone. Rifiuta di diventare vescovo e lui per due volte risponde negativamente per curare la mamma ammalata. Riceve per la terza volta la richiesta di diventare vescovo e accetta, nonostante si sentì indegno di quel ministero. Nel 1982 diventa vescovo di Molfetta. Sin dall’ingresso tutti si resero conto del suo stile differente. Il sindaco rimase sorpreso dal modo semplice del nuovo vescovo. In quegli anni, nel Sud Italia, il rapporto tra sindaco e vescovo erano rapporti di potere.

La pace non è assenza di guerra né equilibrio di forze, ma può essere definita opera di giustizia. (Gaudiu et Spes). La pace come valore fondante, è più complesso e globale dell’assenza di guerra. Pace è capacità di mettere le persone al centro. La scelta della pace è divenuto spina dorsale di tutte le scelte. La prima lettera pastorale di don Tonino fu scritta a più mani, chiedendo ad ogni istituzione ecclesiale presente in diocesi di riflettere sul proprio cammino. Il titolo di questo progetto pastorale è: Insieme alla sequela di Cristo con il passo degli ultimi. Anche le scelte pastorali trovavano ispirazione nel desiderio della pace. Secondo Tonino la pace è l’unico annuncio che Gesù ci ha chiesto di portare. Lc 10: Gesù invia i 72 discepoli e inviandoli dice: entrando in una casa prima dite: pace a questa casa. La premessa di ogni evangelizzazione è di annunciare la pace. Tonino definisce il missionario come un mendicante. La condizione della mendicanza ci mette a livello degli altri. Condividere la condizione di precarietà: questo è essere missionario. È una visione che contrasta ogni posizione di colonizzazione.

Tonino vene nominato presidente di Pax ChrIsti. La prima dimensione di don Tonino nella riflessione sulla pace è una spiritualità della pace, che nasce dal rapporto con il Signore, dal sentirsi guardato da Lui. La spiritualità è la linfa comune, perché non c’è persona che non abbia una spiritualità. Nessun tema come quello della pace è un tema trasversale.

Si serve la causa della pace quando regna la giustizia. Don Tonino si mobilitò per contrastare le politiche di guerra del governo italiano. Mobilitò i vescovi della Puglia per protestare contro l’installazione degli F16. Realizzò varie manifestazioni pacifiste. Cerca di sperimentare forme nuove di lotta non violenta.

Abbiamo perso la capacità di guardare le persone con gli chi delle mamme, che quando si accarezzano il ventre sognano sul proprio figlio, sulla propria figlia.
È importante protestare, ma guardandosi allo specchio, guardandosi in faccia.
Per Tonino la pace è la convivialità delle differenze: è il pensiero maturo di Tonino sul tema. Nella santissima Trinità troviamo il fondamento biblico della Convivialità.
Don Tonino ha nutrito molto la sua chiesa di gesti, perché dava molta importanza ai gesti più che alle parole. 

martedì 13 settembre 2016

UNA DONNA TRA DUE RE





ASSOCIAZIONE BIBLICA ITALIANA
SETTIMANA BIBLICA NAZIONALE

FACCIAMO L’ESSERE UMANO MASCHIO E FEMMINA
12-16 SETTEMBRE 2016 PONTIFICIO ISTITUTO BIBLICO – ROMA

UNA DONNA TRA DUE RE: SAUL, DAVIDE E MIKAL

Rel: Bruna Costacurta
Sintesi: Paolo Cugini

Mikal ha una storia emblematica sottomessa a due re. È lei la donna figlia e sposa che rivela la problematicità del potere esercitata dai due re. Mikal è sotto la loro tutela. La struttura patriarcale della famiglia in Israele dice del marito padre e padrone: pieni poteri. I figli appartengono al padre. Ci sono figure femminili che si oppongono a questo potere. Vasti rifiuta il banchetto del marito. Sono eccezioni significative che sottolineano la libertà di certe donne. Vasti sfida il potere. Il gesto di rifiuto di una debole donna riesce a mettere in crisi un intero impero e il re è costretto ad ascoltare i suoi consiglieri.
Anche Mikal sposata da Davide si contrappone sia a Davide che a Saul. La massima tensione è quando Davide trasporta l’Arca danzando.  Siamo all’interno di un racconto. Nella Scrittura è attraverso il racconto che viene presentata la tematica della relazione tra uomo e donna.
Metodologia narrativa: cercare di fare emergere la figura della donna stretta tra i due re.

Il primo momento: 1 Sam 14, 49. Mikal è figlia minore di Saul. Ed avvenne… Saul offre la seconda figlia: Mikal. Si dice che è innamorata di Davide. Saul sfrutta il suo sentimento utilizzandola come trappola. Saul utilizza le sue figlie per i suoi scOpi, come oggetto. È la perversione del potere che deturpa i rapporti personali e fa della figlia una vittima. Il filo rosso del sentimento dell'amore attraversa il racconto della storia di Davide in varie sfaccettature. Amore è affetto con Gionata, simpatia di Saul all’inizio. L’amore si presenta come qualcosa che può essere sfruttato e tradito. Mikal viene strumentalizzata dal padre. È l’amore che porta Mikal ad accettare il patto del padre? Lei lascia che la sua vita sia decisa da altri. Mikal salva Davide i cui sentimenti però restano indecifrabili. Non si sa se Davide contraccambiava l’amore di Mikal. Davide davanti al pericolo fugge e inizia una nuova vita. È Mikal che rivela il lato oscuro dei due uomini.

Secondo Momento. Mikal sparisce dalla scena. Viene data in moglie ad un altro. È Saul che decide. La notizia di questo nuovo matrimonio di Mikal ci viene detto dopo che l’autore ci dice che Davide si era fatto due nuove mogli. Davide vive come se Mikal non ci fosse mai stata: non chiede mai notizie della moglie. Piange la morte di Saul e di suo figlio, ma non ha nemmeno un pensiero per Mikal. Davide si ricorda di Mikal quando diventa re. Si tratta solo di una mossa politica? Riavere Mikal come sposa significava ritornare a far parte della famiglia di Saul, di legittimare il trono. Davide stesso intima il nuovo marito di Mikal di ridargli la moglie. In tutto questo la donna è soggetto senza voce, oggetto che si acquista. Tutto avviene come se la donna non fosse altro che una pedina di scambio. Che cosa c’entra l’amore in tutto questo? Nulla viene detto dei sentimenti di Davide ne confronti di Mikal. Né viene detto che cosa succede nell'anima di Mikal che vive tutte queste peripezie. Mikal è un oggetto coinvolto in giochi di potere di cui lei non ha voce. Mikal è come un fantasma che non sembra degna di essere menzionata.

Terzo atto. La ribellione di Mikal. 2 Sam 6. Trasferimento dell’Arca. Mikal disprezza Davide e glielo dice. Mikal non ebbe figli fino al giorno della sua morte. L’attenzione si ferma sulla casa regale. Davide entra in casa. Il disprezzo di Mikal si manifesta in tutta la sua serietà. La donna è esasperata e trovato l’appiglio sfoga tutta la sua rabbia. Mikal in questo contesto è ricordata non come moglie di Davide, ma come figlia di Saul. L’accusa di Mikal è sull'atteggiamento di Davide che non sembra adeguato ad un sovrano: da uomo da nulla. Davide però ribadisce la propria scelta. Davide rinfaccia a Mikal che suo padre è stato rigettato e quindi ha perso tutti privilegi regali. Ora che la donna esce dal suo passivo silenzio diventa possibile per il lettore immaginare tutto quello che Mikal non aveva potuto dire. Si coglie il grido di aiuto. La reazione di Mikal rivela tutta la sua frustrazione. Qui c’è una strategia narrativa: Davide piange per la morte di Gionata e non esprime nessun sentimento per la moglie che è stata data ad un altro. Davide si lascia sfuggire l’occasione di recuperare un passato ambiguo. Il grido di aiuto di Mikal resterà per sempre senza risposta. Anche Dio sembra prendere le distanze da Mikal, che resterà senza figli, senza il segno fecondo della benedizione divina. Non è semplice comprender questo. Sembra esserci una condanna alla sterilità, come conseguenza dello scontro con il Re. La sterilità può essere invece conseguenza della decisione di Davide d’interrompere i rapporti con Mikal. Il narratore sembra insinuare una critica teologica nei confronti di Mikal, che esce definitivamente dalla storia. Mikal aveva rivelato la violenza dei due re, ma la sua reazione violenta mostra che si era lasciata contagiare da questa violenza. Mikal figlia di Saul e sposa di Davide è testimone sofferente di questa violenza cieca del potere.


LA QUESTIONE DELL'ANDROGINO NEI PRIMI CAPITOLI DELLA GENESI





ASSOCIAZIONE BIBLICA ITALIANA

SETTIMANA BIBLICA NAZIONALE
FACCIAMO L’ESSERE UMANO MASCHIO E FEMMINA
12-16 SETTEMBRE 2016 PONTIFICIO ISTITUTO BIBLICO – ROMA

LA RELAZIONE UOMO E DONNA E IL CONTESTO FONDATIVO DELLA STORIA BIBLICA DELLE ORIGINI

Rel: Federico Giuntoli
Sintesi: Paolo Cugini

Gen 1: questione dell’androgino.
Senofane: se i cavalli avessero le mani raffigurerebbero li dei come tali.
I primi due capitoli della Genesi si sono prestati ad interpretazioni conflittuali sino ad oggi. Si rappresenta l’altro a partire da sé stessi. In questi racconti fondativi assistiamo ad un Dio che mette in scena l’uomo, ma anche a più uomini che hanno messo in scena il Dio che ha messo in scena loro stessi, facendo saltar fuori il disegno di un Dio diverso. E’ possibile partire dalle ideologie di coloro che hanno scritto i primi due capitoli di Genesi? I testi che cosa dicono circa la creazione dell’umano, dall’androgino? Come il Dio creatore ha concepito l’umano?

Gen 1,27: Dio crea un umano androgino, uomo-donna che poi si divide in Gen 2. Dovendo divenire una sola carne ritornano all'idea originaria di androgino. Il mito dell’androgino è antichissimo, lo troviamo in campo babilonese. Nella cultura greca si fa riferimento a Platone.
Con Origine, Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore l’idea di androgino è arrivato nel cristianesimo. La creazione androgina sarebbe la creazione originale prima del peccato. La sessualizzazione e peccato andrebbero a braccetto.
Questa interpretazione androgina è presente nei nostri testi?
Maschio e femmina: in tutta la bibbia ebraica compare poche volte e solo nella genesi e sempre in narrazioni sacerdotali.
Gen 6,19: si riferisce agli animali.
Maschi e femmina vuole dire una sessualità differenziata, come nel diluvio indica una coppia.
Gen 5,1-2: il P (Codice Sacerdotale) mette in essere uno stesso identico schema. P presenta schemi sacerdotali abbastanza fissi.
Tra le versino antiche solo quella etiopica in 1,27 riporta il singolare: maschio e femmina lo creò: il doppio sesso è presente in una persona.

Anche una versione recente legge il pronome al singolare: uomo e donna lo creò.
L’uomo e la donna risultano essere differenziati nell’atto creaturale di Dio.
Adam: nel senso onnicomprensivo, generale.
Da molto tempo viene fatto osservare che nel racconto P il nome Adam si trova sia determinato che indeterminato. Si sostiene che il nome Adam senza articolo sarebbe il maschio, ma sena articolo sarebbe l’umanità. Se fosse vero in Gen. 5,1 saremmo in presenza di un androgeno. Anche in 1,27 è la stessa cosa.

Anche questo argomento non regge. La Bibbia usa Adam in entrambi i significati. La teoria dell’androgino non regge.
Il sostantivo Adam mai significa uomo nel senso sessuale, ma essere umano, persona, individuo.
Nel secondo racconto Adam indeterminato è facilmente assimilabile ad un uomo. Forse è partito da qui l’ambiguità delle interpretazioni.
P: Gen 9,6: riprende la creazione dell’umano dove si vede bene che P usa Adam sia in senso determinato che indeterminato.
P. ha necessità di una differenziazione dell’umano perché essa è parte integrante del suo progetto teologico, vale a dire la fertilità.
Non esiste un essere androgino nella tradizione biblica: è questo che ho voluto dimostrare.
Per P. l’uguaglianza tra maschio e femmina è su base ontologica e non funzionale. Le antropogonie di quei tempi non parlano mai alla reazione della donna. Solamente una recensione assira parla di ciò. A differenza con i testi biblici è assente la creazione separata di uomo e donna.

Quasi da subito l’antica esegesi giudaica ha ridisegnato la riflessione sino ai nostri giorni.
Il mito dell’androgino servì al mondo giudaico per armonizzare i due racconti di Gen. Il disegno originario è stato ridisegnato dal giudaismo. Filone soprattutto è colui che ha utilizzato l’idea di androgino che ha preso dalla letteratura greca per leggere i testi su Genesi.
Androgino e grazia diviene un’identità. Ecco perché il sesso viene identificato con il peccato. Gregorio di Nissa dice che la divisione è una presa di distanza dal prototipo.
Massimo il confessore: la divisione è associata al peccato.
La divisione dei sessi viene sempre più associata al peccato.






mercoledì 7 settembre 2016

TONINO BELLO UOMO DELL'ACCOGLIENZA




SAGRA DI SAN BARTOLOMEO – 7 SETTEMBRE 2016
Relatore: Sergio Paronetto
Sintesi: Paolo Cugini

C’è sintonia tra papa Francesco e Tonino Bello. Sono molti i temi che li accomunano. Papa Francesco è il papa del grembiule, della chiesa del servizio, attento alle persone più umili e povere.
Tonino Bello è un dottore moderno della Chiesa, profeta e poeta. Era un uomo libero, attento ai volti.
Nel Mediterraneo si muore più di prima. 4166 persone sono morte in un anno. Dall’inizio del 2016 un migrante su 42 perde la vita; lo scorso era uno si 52. Il numero di bambini morti nei conflitti sono moltissimi, è quintuplicato in pochi anni. C’è molta demagogia in Occidente sugli aiuti umanitari. Molti paesi europei esportano armi. Siamo davanti ad un esodo che Tonino Bello definiva negli anni ’90 un esodo biblico, di turbe sbandate che ci obbliga ad aprire gli occhi. Papa Francesco definisce la tratta delle persone un problema di lesa umanità. Per Tonino si tratta si lesa divinità.
Tutta la tematica dell’accoglienza è una questione di fede, che riguarda Dio Trinità. Le persone sono immagine di Dio Trinità. Tonino lo dice nella messa crismale dell’86. L’accoglienza è un problema di fede e non sociale. La sostanza della pace è il discorso teologico più robusto che si possa fare, perché affonda le sue radici nel mistero trinitario. Abbiamo un compito storico di saper stare bene a tavola. Siamo ministri del convito, far sedere all’unica tavola i differenti commensali. Siamo popolo messianico, siamo ministri di questa comunione. Dobbiamo favorire il dialogo dei diversi commensali.

Anche se finissero tutte le guerre – è il sogno di Isaia – e la trasformazione di strumenti di morte in strumenti di lavoro; anche se finissero le ingiustizie la pace non è ancora raggiunta, perché la pace è convivialità delle differenze. Questa è la pace conviviale. Sacerdoti di pace, martiri di pace, profeti di pace: è questa la missione dei cristiani.
Pochi cristiani stanno seguendo papa Francesco nella sua denuncia contro gli armamenti. Il Papa ci propone dei percorsi di disarmo radicali. Papa Francesco ha chiamato riminali i fabbricanti di armi.
Re della pace: non essere schiavi della guerra, dell’ideologia del nemico. I re della pace sono tessitori di rapporti umani limpidi, pieni di tenerezza. Papa Francesco parla di rivoluzione della tenerezza, che è combattiva e non qualcosa di sdolcinato.

È necessario utilizzare la compassione del cervello, delle mani e del cuore (Tonino Bello). Il segno di croce che facciamo ogni giorno ha senso se poi ci battiamo contro le ingiustizie. L’ingiustizia è un’eresia trinitaria. La Trinità è la radice della pace. La misericordia è il cuore della trinità che si concretizza nei gesti quotidiani. La pace è disarmo, convivialità, comunione, solidarietà con il prossimo.

Pace come comunione si realizza nella Chiesa del grembiule. Occorre bloccare la frenesia dell’accumulo. Occorre servire, accompagnare, difendere. Non solo prestazioni di servizi, ma percorsi di relazioni umani autentiche. Occorre combattere con i poveri per liberarsi dalla povertà.
Evangeli Gaudium: comunione delle differenze. I conflitti ci sono. Se rimaniamo intrappolati nel conflitto perdiamo gli orizzonti. Possiamo vivere il conflitto nella pace, gestirlo. Sopportare il conflitto e trasformarlo in un nuovo processo di pace. Sviluppare la comunione delle differenze. Ciò è possibile da chi riesce ad andare oltre le strutture conflittuali. L’unità è superiore al conflitto. La PACE diventa la ricerca del volto delle persone. Ogni persone è degna della nostra dedizione; Dio l’ha creata a sua immagine e riflette qualcosa della sua gloria. Se riesco ad aiutare una persona a vivere meglio, ciò è sufficiente per dare senso alla mia vita.

Tonino Bello ai giovani: il volto di una persona è irripetibile. Il volto di una persona è esclusivo, e non tornerà mai più ad illuminare la terra. Ognuno di noi è unico e irripetibile. Nessuno sarà come noi.

Ricerca del volto del prossimo è allenamento alla pace. L’etica del volto è l’unica capace di costruire la pace. Partire dai volti. 

martedì 6 settembre 2016

COME UN SOLO UOMO




LA PAROLA DI DIO NELLA VITA DELLA COMUNITÀ
RONCINA 6 SETTEMBRE 2016

(Neemia 8,1s)
Giovanna Bondavalli
Sintesi: Paolo Cugini
Obiettivo è che le comunità dell’unità pastorale apprendano a camminare con la Parola di Dio. Che cosa significa incontrare la Parola di Dio come comunità? Ci facciamo aiutare da un testo: Neemia 8. Come fino adesso abbiamo vissuto il nostro rapporto con la Parola di Dio.
Il testo racconta una realtà che accade spesso anche in mezzo a noi. Ci troviamo spesso ad ascoltare la Parola e qualcuno ce la spiega.
Ci sono anche delle cose nuove.
Il popolo si raduna alle porte delle acque: non siamo in chiesa, ma all’aperto. C’è stato un momento difficile in cui Gerusalemme è stata attaccata e molte persone sono andate all’esilio. Alcune tornano e trovano Gerusalemme trasformata. Questa scena si svolge quando le persone che erano in Esilio tornano e cominciano a pensare alla ricostruzione. Occorre ripartire e ricostruire. Il problema non è solo rimettere le cose come erano prima, ma il perché ricominciare. Esdra e Neemia incitano a ripartire e lo fanno a partire dall’ascolto della Scrittura. Prima di tutto ascoltiamo la scrittura insieme. Una delle espressioni che torna di più nel brano è la seguente: tutto il popolo. Sono gli ebrei insieme che trova la Parola: tutti insieme. Quelli che leggono lo fanno ad alta voce affinché tutti possano capire. Tutti capiscono. E’ una comunità che si raccoglie intorno alla Parola dove tutti hanno un ruolo. E tutta la comunità chiede allo scriva di portare il libro. Qui non è il prete che decide, ma la comunità. La comunità nasce attorno ad un libro. E’ la comunità che ha bisogno del libro.

C’è un’altra cosa importante che accade nella narrazione. Il libro è uno, ma il lettore non è unico: ce ne sono diversi. Le persone che leggono vengono nominate per nome. Dio parla alla comunità attraverso persone della comunità. I lettori leggono e spiegano la Parola di Dio. Leggevano in ebraico e spiegano in aramaico. Negli Atti degli Apostoli c’ una narrazione in cui Filippo spiega la Parola ad un Etiope. Importante è leggere la Bibbia, ma è molto importante trovare qualcuno che ce la spieghi. Come faceva Gesù quando raccontava le parabole e poi le spiegava agli apostoli. La Parola di Dio ci viene sempre incontro attraverso qualcuno.

La lettura è integrale dall’inizio alla fine: dall’alba fino a mezzogiorno. Quel giorno non c’erano altre cose da fare. La festa continua per alcuni giorni e si continua a rileggere tutto il libro della legge. Non si trascura niente della Bibbia e non si legge a caso: dall’inizio alla fine e si legge così com’è. Si legge anche secondo alcuni criteri.
La lettura non si ferma solo a leggere un libro, ma che va oltre il libro e tocca la vita della comunità ed è capace di cambiarla. Il primo segno che ci viene incontro come reazione alla lettura è il versetto 9: tutto il popolo piangeva mentre ascoltava la lettura della legge. Perché questa Parola è una Parola che brucia, che tocca il cuore, perché fa ricordare il legame del popolo con il Signore. È una Parola che tocca il cuore perché ci fa capire dove siamo, che cosa è successo; ci fa capire le nostre perdizioni. Soprattutto però leggendo la Parola capiscono chi è il Signore. È una Parola che ci prepara ad una conversione. La questione centrale è che bisogna lasciarsi commuovere.

L’altra reazione è quella della gioia, della festa: si riscopre la bellezza dello stare insieme. Scopriamo che il Signore è la nostra forza. Ascoltando insieme avevano capito.
10-12: mandate porzioni a quelli che non hanno niente di preparato. La festa diventa condivisione. La festa dev’essere allargata a tutti, soprattutto a quelli che non ne hanno.

Considerazioni
L’incontro con la Parola di Dio è sempre l’incontro con la vita di noi e come chiesa, come comunità. La scrittura ci dice chi siamo, a fare memoria e a fare un progetto. Nel testo letto tutto parte da un fallimento. Si riparte da ciò che non ha funzionato. Come ripartiamo dai nostri fallimenti? Chi ci aiuta ad uscirne? Il tempo del fallimento è il tempo in cui si riparte meglio.

Questa comunità che si costruisce attorno al libro è variegata con persone diverse che incontrano la Scrittura in modi diversi. È una comunità in cui c’è qualcuno che aiuta gli altri a comprendere la Parola. Ci sono i nomi. Ci sono dei testi che leggiamo con la nostra vita.
Neemia ci ricorda che di scrittura bisogna masticarne tanta. Occorre provare a fare un po' fatica sui testi. Occorre apprendere a leggere in modo integrale la Scrittura.

La Parola di Dio ci viene incontro per commuoverci, per bruciarci dentro il cuore. È una Parola che fa muovere perché fa commuovere e chiede sempre di continuare a metterci in relazione, ad andare fuori di noi verso gli altri. È una Parola che fa il suo lavoro fino in fondo quando la facciamo diventare festa e condivisione. È una Parola che aiuta a capirci e diventa testimonianza: non tiene ferma la gente.