martedì 28 giugno 2016

BUON VIAGGIO DON EUGENIO





LA VITA COME CAMMINO

don Paolo Cugini
C’è un’immagine che ricorre spesso nei Vangeli, vale a dire quella di Gesù che cammina sulla strada con i suoi discepoli. È sulla strada che Gesù ha svolto la sua missione. È sempre sulla strada che Gesù ha incontrato le persone, gli ammalati, i poveri. È, infine,  sulla strada che Gesù ha annunziato l’avvento del Regno di Dio, regno di pace, di giustizia, di fraternità.
Ho conosciuto don Eugenio guardando una foto. Era il 1992 e in seminario, dove allora mi trovavo per prepararmi al ministero, il Centro Missionario Diocesano aveva organizzato una mostra fotografica sulle missioni diocesane. Mentre guardavo le foto ne trovai una che ritraeva una persona che camminava spedita non si sa dove sulla strada impolverata del sertao della Bahia. Chiesi a chi era vicino a me chi fosse il personaggio in questione e mi venne risposto: “È don Eugenio Morlini, uno tosto”. Incuriosito dal personaggio andai a frugare tra le lettere dei missionari diocesani, che erano state appena pubblicate in quel periodo. Lessi con interesse alcune delle lettere che don Eugenio scriveva alla fine degli anni ’70. Mi colpirono molto alcune delle sue parole che esprimevano una sete di giustizia impressionante. Era l’epoca delle lotte contro i latifondisti locali, che opprimevano i poveri. A distanza di circa venticinque anni, mi ricordo ancora un pezzo di una di queste lettere nelle quali don Eugenio diceva che, sino a quando ci sarebbero stati dei poveri che soffrivano le ingiustizie dei potenti, non si poteva rimanere nel chiuso delle chiese per celebrare delle liturgie. Affermazione forte e senza dubbio provocatoria, che esprimeva comunque uno dei maggiori insegnamenti del cammino della Chiesa Latinoamericana vissuto nelle comunità di base, vale a dire il legame tra fede e vita.

Ciò che celebriamo nella liturgia dev’essere il riflesso di ciò che viviamo nella vita di ogni giorno e viceversa.  Non possiamo osannare in chiesa il Dio della vita e poi disinteressarci di chi soffre e rimanere indifferenti dinanzi alle cause dell’ingiustizia. Nelle comunità di san Bartolomeo e Codemondo questo stile è molto presente e, mi sembra, la maggior eredità che lascia don Eugenio a noi. Ogni volta che celebriamo alla domenica il giorno del Signore, c’impegniamo a vivere come il Signore ha vissuto, ad assimilare la sua sete di giustizia, a desiderare di costruire ponti dove il mondo semina odio, a rimanere sensibili dinanzi alle sofferenze dei fratelli e delle sorelle che incontriamo nel nostro cammino, a rimanere aperti sul mondo e non chiusi nel nostro orticello.

Essere amici di don Eugenio vuole dire sforzarci di percorrere a nostro modo i sentieri che lui stesso ha percorso mostrandoci il cammino. Sono i sentieri della pace, della lotta contro le mafie, dell’attenzione ai più poveri, agli ammalati, ai lontani. Sono anche i sentieri che lo hanno portato in quelle parti del mondo piene di tensioni e di sofferenze, per portare un po' di sollievo. Mentre lo ringraziamo per il servizio che ha svolto per tanti anni in mezzo a noi, lo raccomandiamo al Signore perché lo tenga in salute e perché continui a seminare le sementi del Regno di Dio nella nuova tappa della sua vita. Buon cammino Eugenio.


giovedì 23 giugno 2016

DAL CALIFFATO AGLI STATI NAZIONALI






CORSO ISLAM

CUM VERONA 20-23 GIUGNO 2016




Prof. Celeste Intartaglia (PISAI)
Sintesi: Paolo Cugini




IV. Verso un nuovo califfato? 
            La terminologia politica: califfato, sultanato, stato, nazione, umma 
            Le “primavere arabe” e i nuovi riassetti regionali
            L’Isis e la sua lettura del califfato
             

Nel loro desiderio di vedere risorgere il califfato, i musulmani non tengono conto dell’evoluzione geopolitica e sociale. Sognano un califfato dei tempi dei Ben guidati, ma questa visioni è in contrato con il sentimento nazionalista e con le aspirazioni alle libertà individuali e ai diritti dell’uomo. 
Da qualche tempo, l’evidenza dimostra che la resistenza all’egemonia occidentale ha preso aspetti spaventosi attraverso le azioni di gruppi che si qualificano come fondamentalisti, estremisti sul piano religioso e di terroristi sul piano politico. Fra questi citiamo gli Shebab in Somalia, Boko Haram in Nigeria, la “galassia” di al-Qaïda (al-Qā‘ida), e infine il Daesh con la sua proclamazione dello stato islamico sotto un nuovo califfato autoproclamato. 

Molti musulmani hanno preso le distanze da questi gruppi, ma molti altri li sostengono, soprattutto finché contrasteranno gli interessi dell’Occidente, ritenuto colpevole delle umiliazioni inflitte ai musulmani. È questo forse l’unico punto che mette d’accordo i musulmani e fa dimenticare le loro divisioni interne. 


Le primavere arabe e i nuovi assetti regionali


La primavera araba è una espressione che fa riferimento all’ondata di protesta che ha attraversato i regimi del mondo arabo nel corso del 2011 e in vari casi si è trasformata in vera e propria rivoluzione con conseguente crollo del regime (ruolo dei bloggers). 

La prima, ed emblematica, è quella della Tunisia, dove si colloca simbolicamente l’inizio della rivolta: il gesto di protesta di Mohamed Bouaziz, un giovane venditore ambulante, che nella cittadina di Sidi Bouzid si è dato fuoco per protestare contro le vessazioni da parte delle forze di polizia locali. La protesta successiva si è diretta contro il dispotismo e la corruzione del regime del presidente Ben ‛Alī, al potere dal 1987 (successore di Bourguiba), nonché come movimento di denuncia di uno stato di crisi economica generale, e ha provocato l’immediata caduta del regime (il 14 gennaio Ben ‘Ali si rifugia con la famiglia in Arabia Saudita). Si forma in breve un governo provvisorio di coalizione, che porta allo scioglimento, nel mese di marzo, del partito di Ben ‘Ali (Rassemblement constitutionnel démocratique) e al riconoscimento dei partiti al bando. Inoltre, viene legalizzato il movimento islamista Ennahda (Rinascita), vicino ai Fratelli Musulmani che dai primi anni Novanta era al bando; il leader Rachid al-Ghannuchi, ritorna nel paese.  Si apriva un delicato  processo di transizione democratica e costituzionale in cui un ruolo decisivo era ricoperto dall’Alta autorità per il raggiungimento degli obiettivi della Rivoluzione, della riforma politica e della transizione democratica, un comitato costituito il 18 febbraio e composto da rappresentanti delle forze politiche e sindacali, da esponenti della società civile e da organizzazioni e associazioni di carattere nazionale, al fine di assistere il governo nella transizione costituzionale in vista delle elezioni per l’Assemblea costituente. Queste elezioni, previste per il mese di luglio e poi rinviate al  23 ottobre, provocarono altre proteste di giovani e cittadini delusi dalla lentezza del processo democratico e dal pericolo di una deriva autoritaria. Le elezioni del 23 ottobre fecero registrare una grande affluenza (oltre il 90% ) e sancirono il successo di Ennahda, ma anche l’importante affermazione dei partiti laici tra cui il Congresso per la Repubblica, guidato da uno dei leader storici dell’opposizione, Moncef Marzouki, presidente della Lega tunisina per i diritti umani.

L’anno successivo al-Ghannouchi ha accettato di non menzionare nella nuova costituzione la sharī‘a come fonte legislativa; e nella costituzione del gennaio 2014, approvata a larga maggioranza, la shari ‘a non viene esplicitamente citata e si garantisce libertà di fede e di coscienza. Nonostante ciò, le elezioni parlamentari dell’ottobre successivo sono state vinte dal partito “laico” Nidaa Tounes. 

A una settimana dalla caduta di Ben ‛Alī, anche in Egitto le piazze si riempirono di manifestanti che chiedevano la fine dello stato d’emergenza e le dimissioni del presidente Hosni Mubārak, al potere da trent’anni. Ad animare la protesta erano soprattutto i giovani che si erano politicizzati al di fuori dei partiti tradizionali, la sinistra più radicale, i segmenti democratici della classe media, operai e piccoli agricoltori. La richiesta di democratizzazione della vita politica si sposava alla centralità della questione sociale, in un paese dove cresceva la disoccupazione e la povertà e dove la corruzione aveva premiato la grande borghesia cittadina alleata del regime. Il 25 gennaio venne indetta sul web la ‘giornata della collera’ e nelle piazze del Cairo decine di migliaia di cittadini si riunirono per protestare; il 28 gennaio imponenti manifestazioni paralizzavano il centro della capitale, dove piazza Tahrir divenne il centro delle manifestazioni. 

Mentre la rivolta appariva ormai inarrestabile e la repressione si faceva sempre più violenta, tornò a far sentire la sua voce tra i manifestanti  l’organizzazione fondamentalista dei Fratelli musulmani nel tentativo di incanalare la contestazione per assumerne a tempo debito le redini. Intanto Mubarak rinunciò al potere (11 febbraio),  lasciando le redini del paese nelle mani del Consiglio supremo delle Forze armate guidato da Mohammed Hussein Tantawi (comunque legato al regime e segno di continuità con il passato. Nel mese di agosto, intanto, si apriva il dibattimento a carico di Mubarak, agli arresti da aprile, accusato della morte di circa 800 manifestanti durante le contestazioni che avevano portato alla sua deposizione, oltre che di arricchimento illecito e corruzione. 
Nel corso dell’anno emergevano in Egitto alcuni preoccupanti segnali di una involuzione della vita politica e di un innalzamento delle tensioni interreligiose: a settembre l’assalto con morti e feriti all’ambasciata d’Israele al Cairo, a ottobre il massacro di cristiani copti negli scontri con la polizia. 

Il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi vinse le elezioni presidenziali del gennaio 2012, ma nel giugno successivo, la corte costituzionale egiziana ha invalidato le elezioni parlamentari, e l’anno successivo, il 3 luglio 2013, a seguito di un’ondata di proteste di massa, Morsi è stato destituito. Ha preso il potere il generale ‘Abd al-Fattah alSisi, allora Ministro della Difesa, mentre Morsi è stato sottoposto a processo e condannato a morte, ma la sentenza è passibile di revisione. Anche qui la protesta riguardava un articolo della Costituzione che faceva riferimento alla sharī‘a come principale fonte della legislazione, che avrebbe portato a ridefinire il diritto egiziano, in particolare per lo status dei non musulmani e in campo penale.  

In Libia la protesta scoppiava il 15 febbraio nella città costiera di Bengasi, in Cirenaica, la regione da sempre ostile al controllo politico di Tripoli. Mentre la ribellione nelle piazze si allargava, pur non essendo né troppo violenta né troppo numerosa, in Cirenaica la ribellione si trasformò presto in insurrezione armata con l’adesione di ufficiali dell’esercito e di molti reparti militari. All’inizio di marzo i ribelli avanzarono verso sud e conquistavano Brega, sul golfo della Sirte, sede di uno dei principali impianti petroliferi del paese intorno alla quale nel corso dei mesi successivi si riaccendeva più volte la battaglia tra gli insorti e le forze governative fedeli al colonnello Gheddafi. A differenza degli altri paesi, in Libia si vede da subito l’ingerenza dei paesi occidentale. La Francia è il  primo paese a riconosce l’autorità del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), l’organismo politico che controllava i territori in mano ai ribelli, autoproclamandosi unico legittimo rappresentante della repubblica libica, e fa pressioni sull’Onu per poter prendere iniziative . per proteggere i civili. Si crea una no-fly zone e si rafforzava l’embargo sulle armi. Dopo i primi bombardamenti aerei contro le forze governative che cercavano di riconquistare Bengasi, il 31 marzo la Nato assumeva il comando delle operazioni contribuendo al successo dell’avanzata degli insorti in Tripolitania. Nel mese di aprile anche l’Italia partecipa alle operazioni, mentre i ribelli conquistavano Misurata (maggio). Una lunga fase di stallo caratterizzava le operazioni di guerra tra giugno e luglio ma nel mese di agosto, sostenuti dalle tribù berbere, i ribelli entravano a Tripoli mentre le truppe lealiste e Gheddafi, ricorso a più riprese all’impiego di mercenari centrafricani, ripiegavano a Bani Walid e Sirte. Dopo un lungo assedio, il 20 ottobre i ribelli entrarono in Sirte e catturarono Gheddafi, dopo che il convoglio con il quale era in fuga era stato colpito dagli elicotteri della Nato. Con la morte di Gheddafi si apriva una fase delicatissima per il paese: antagonismi e debolezze del Cnt, già emersi durante il conflitto, e l’incognita delle forze islamiste, la cui presenza determinate nel campo degli insorti è stata spesso taciuta, sono solo alcuni dei problemi da affrontare. L’assenza di una società civile, dei partiti, di un’amministrazione centralizzata e l’enfatizzazione della tribù come unica istituzione ufficiale e riconosciuta della società durante la dittatura di Gheddafi, hanno fatto della Libia un paese senza stato dove sarà difficile avviare la ricostruzione sotto la minaccia delle ingerenze dei paesi confinanti e degli interessi economici e geopolitici di Francia e Gran Bretagna. Queste previsioni si sono avverate con l’arrivo in Libia di formazioni di jihadisti affiliati all’Isis.

L’Isis e la sua lettura del califfato

All’inizio del 2014 l’Isis ha assunto in modo stabile il controllo della città di al-Raqqa (nord della Siria) e, nel mese di giugno, quello della città di Mosul, la metropoli nord irachena che conta oltre due milioni di abitanti. Alla fine dello stesso mese, la conquista di uno dei tre valichi ufficiali di frontiera tra Iraq e Siria ha offerto all’Isis l’occasione per assumere la nuova denominazione di “Stato islamico” (Is / Daesh = Al-dawla al-islāmiyya fī al-‘Irāq wa-l- Shām); e Ibrahim al-Baghdadi è stato proclamato “califfo”. 


Per l’estensione del territorio che controlla, l’accesso a risorse come il petrolio, la riscossione di tasse e il ricorso all’estorsione, Daesh è ormai una delle più potenti organizzazioni estremiste della storia recente. Il suo successo e l’uso della violenza – senza remore e ignorando totalmente le garanzie del diritto islamico classico – hanno procurato un notevole afflusso di jihadisti nelle sue fila, sia dai paesi arabo-islamici che da quelli occidentali. 
Al seguito di Daesh si sono poste altre organizzazioni islamiste di altre regioni, per esempio i “Partigiani di Gerusalemme” (Anṣār Bayt al-Maqdis), che operano nella penisola del Sinai e hanno proclamato quest’area “provincia” (wilāya) dello “Stato islamico”. 
Con al-Zawahiri (al-Qā‘ida) la rottura risale al 2014, e fra le due organizzazioni esiste una forte rivalità internazionale nel reclutamento di seguaci, ma anche su questo terreno Daesh sta ormai eclissando al-Qā‘ida, la quale  conta ancora su alcune organizzazioni affiliate:
-                     Aqap (al-Qā‘ida in the Arabian Peninsula), formatasi a partire dal 2003, collegata alla componente saudita del nucleo storico di al-Qā‘ida e nel 2009 unificatasi con il ramo yemenita. È il gruppo che ha rivendicato la responsabilità dell’attentato alla redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo (7 gennaio 2015).  
-                     Aqim (al-Qā‘ida in the Islamic Maghreb), formatasi nel 2007 come evoluzione del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento che affonda le radici nella guerra civile algerina degli anni 1992-1999, e che ha esteso le sue attività al Mali e al Niger. 

-Boko Haram
Il gruppo, che ha nome ufficiale di Ğamā‘at ahl al-sunna li-l-da‘wa wa-l-ǧihād, ma che è noto con il nome hawsa di Boko Haram, è stato fondato a Maiduguri tra il 2001 e il 2002 da Muhammad Yusuf con l’obiettivo di imporre la šarī‘a nel Bornu, con il sostegno dell’allora governatore Ali Modu Sheriff. Era in origine un centro religioso con moschea e scuola aperta a ragazzi provenienti da famiglie povere, anche dei vicini Niger e Chad. In questa scuola si parlava solo arabo; presto il centro si dà obiettivi “politici” e recluta futuri jihadisti. Nel 2004 il centro si trasferisce a Kanamma, vicino al confine con il Niger. Il gruppo è diventato noto a livello internazionale a partire dal 2009, con attentati a chiese cristiane, ad università, ed altri attentati anche contro occidentali. Nel 2015 ha dichiarato la propria fedeltà a  Daesh, il cui portavoce Abu Muhammad al-‘Adnani, ha rilasciato un messaggio audio in cui accoglie la bay ‘a (pegno di fedeltà) di Boko Haram e lo considera come un ampliamento di Daesh in Africa occidentale. 

Come si costruisce la figura del “Califfo” 

Ibrāhīm ‘Awād al-Ibrāhīm al-Badrī, autoproclamatosi “califfo” nel 2014 con il nome di Abū Bakr al-Baghdādī, è nato a Samarra nel 1971. Militante anti-americano, ha combattuto a lungo nei ranghi di al-Qā‘ida in Iraq, fino a diventarne il principale esponente. Nel 2009, dopo aver trascorso cinque anni da prigioniero nel campo di internamento americano Camp Bucca (sito presso Umm Qasr, Iraq), è stato liberato; ha  fatto perdere le proprie tracce, e ha dato vita ad una formazione denominata ISI (Islamic state of Iraq), che si è presto distinta per le centinaia di vittime tra le popolazioni sciite, sunnite e occupanti occidentali in tutta l’area di Baghdad. Dopo lo scoppio della guerra civile in Siria, la formazione è stata rinominata ISIS (Islamic State in Iraq and Siria), in arabo Daesh (al-Dawla alislāmiyya fī al-‘Irāq wa-l-Šām).
Daesh ha assunto con la forza l’egemonia sulle altre forze di insorti in Siria, ha rotto ogni legame con al-Qā‘ida e ha cominciato una vasta campagna di reclutamento. 
La figura di al-Baghdadi si distingue da altre figure, quali ad esempio Bin Laden o alZarqawi: a differenza di questi due, è colto, ha un dottorato e sa comunicare. La scelta del nome si può interpretare a vari livelli: il nome “al-Baghdadi” contiene in sé un appello e un progetto: continuare la guerra contro il Governo dell’Iraq fino alla conquista della capitale Baghdad, con un messaggio diretto a tutti quegli iracheni che, con la Seconda Guerra del Golfo e la caduta di Saddam Hussein, hanno perso lavoro e posizione sociale, e circondatosi di ex-alti ufficiali iracheni delle forze armate, della Guardia Repubblicana e dei servizi di informazione di Saddam Hussein, e appoggiano il progetto di Daesh nell’intento di «riprendersi il Paese» ed espanderne il dominio alla Siria e al Libano. Dal punto di vista simbolico e dottrinale, è ancora più significativa la scelta del nome Abu Bakr, che riconduce direttamente al primo successore del profeta Muhammad (632-634). 
Anche le modalità della prima apparizione pubblica di Abu Bakr al-Baghdadi come neo proclamato Califfo è simbolica: si è presentato nelle vesti nere che richiamano la dinastia Abbaside (750-1258); ha pronunciato il suo primo discorso in pubblico – come un imam predicatore combattente - in una moschea durante la preghiera. E anche il luogo  è simbolico: si tratta della Grande Moschea al-Nuri, costruita da Nūr al-Dīn Zangī (11181174 d.C.), che mobilitò i musulmani al jihād contro i Franchi (crociati).

Un altro tratto non privo di interesse, è l’uso che il neo-Califfo fa di alcune fonti storiche. Ad un certo punto del suo discorso inaugurale dalla Jāmiʿal-Nūrī, al-Baghdadi fa intendere di voler restaurare i confini di massima estensione del Califfato Abbaside, fino al Maghreb e alla Spagna, includendo però anche «Roma». Ora, la «Roma» di cui parlavano gli antichi dominatori Abbasidi non era l’attuale Capitale italiana (e sede dello Stato Vaticano), bensì Bisanzio (Costantinopoli), sede della «Roma d’Oriente» – fino alla sua caduta nel 1453 per mano dei Turchi Ottomani guidati da Maometto II. 

La predicazione di un nuovo “califfato”

La nascita di una nuova entità territoriale che si proclama entità statuale è una relativa novità nella galassia della violenza politica di matrice fondamentalista. È la prima volta che una formazione terrorista insorgente rivendica come propria una vasta estensione territoriale e mette in atto un proprio potere amministrativo. Questo si pone in aperto antagonismo e dissenso, fino alla rottura dichiarata, con gli obiettivi strategici di al-Qā‘ida di una guerra antioccidentale di matrice islamica volta a «liberare i luoghi santi dalla presenza dei Crociati». Si ha dunque il passaggio da un’ideologia guerriera di tipo «reattivo» a un progetto di espansione che, perlomeno nelle sue intenzioni, è il ritorno allo spirito originario della predicazione espansiva del Profeta.
Oggi Daesh governa vaste aree dell’Iraq centrale e della Siria settentrionale e rivendica ambizioni di tipo trans-nazionale, percorrendo la strada dell’affiliazione e del riconoscimento reciproco con varie formazioni estremiste islamiche che vanno dalla Nigeria all’Africa Occidentale, dall’Iraq alla Siria all’Algeria. Lo strumento simbolico per compiere questa operazione di legittimazione dottrinale è la formulazione di un progetto di nuovo Califfato. La natura di questa predicazione non è congruente con i lineamenti dell’istituzione storica califfale, ma ha una enorme forza di attrazione per le popolazioni mediorientali e per i mass media. 
Il Califfato storico (fino al 1924) ha avuto come caratteristiche la legittimazione da parte di vaste comunità di credenti e dei loro governatori, e il riconoscimento da parte di uno o più autorevoli centri di preghiera o di studio dottrinale. 
Oggi Daesh non può contare su alcuna legittimazione al di fuori dei confini che controlla direttamente, pur predicando il progetto di un Dār al-Islām che vada dalla Spagna al Maghreb a tutti i paesi di lingua araba e turca fino a Siria e Iraq, né il riconoscimento dei “dotti” musulmani (espressi dagli ìulama’ delle moschee più autorevoli, quale ad esempio al-Azhar).
La legittimazione di al-Baghdadi è puramente “combattente”, derivante dal potere armato; le sue milizie animate da un fanatismo dai toni messianici, di diversa provenienza: 
oltre agli arabi iraqeni e siriani, una folta milizia proviene dalle fila dei guerriglieri ceceni che per decenni si sono opposti alla Russia, molti afghani e turchi, molti europei. 

A differenza di al-Qā‘ida che durante la sua permanenza in Afghanistan e Pakistan ha usato come mezzo di comunicazione la lingua araba e riservato alle lingue locali (Daari, Pashtun, Urdu) il valore di puro scambio orale per le comunicazioni quotidiane di minore impatto simbolico, nel Daesh si parla e si comunica anche a livello ufficiale sia nell’arabo classico (o perlomeno in un accettabile arabo standard), sia in inglese. E l’inglese è anche la lingua franca in cui comunicano tra loro i combattenti. Questo rende la comunicazione pubblica del Daesh più pervasiva e di maggior impatto per l’Occidente. Molti esperi di comunicazione di lingua inglese, giovani che provengono dalle periferie di Londra e di altri paesi occidentali producono video-comunicati e proclami scritti di grande impatto “spettacolare” e simbolico. Ad esempio, i video in cui i neo-guerrieri muhajirīn si rivolgono direttamente al primo ministro inglese e al presidente degli Stati Uniti chiamandoli per nome sono una novità assoluta nei toni e nei registri di comunicazione fino ad ora riscontrati nella “galassia jihadista”. La configurazione della minaccia assume toni da film popolare, con un fortissimo impatto sul pubblico giovanile. 
E, pur rivendicando una filiazione diretta dal salafismo e dal wahhabismo sunnita, propone una nuova «teologia della liberazione», apocalittica e combattente. I protagonisti sono  sostanzialmente ragazzi e ragazze che scelgono di lasciarsi alle spalle le metropoli occidentali o arabe in cui la modernizzazione è imperante e di ricominciare da un “anno zero” della Storia. La predicazione associata alla nascita del nuovo Califfato giunge a presentare Shām  come una nuova Terra Promessa. E il messaggio è di tipo apocalittico: siamo ormai vicini alla fine dei tempi e che la battaglia finale con le forze occidentali è ormai vicina. Essa avrà luogo, secondo la i proclami di Daesh, nella città di Dābiq. 
È importante sottolineare che, grazie alla sua consistenza reale come «insediamento territoriale», Daesh è un progetto attrattivo proprio per tutti coloro che, in Occidente o in Medioriente, non si sentono più «a casa». Combattenti e reduci, estremisti ricercati e perseguiti dalle polizie e dalle forze di sicurezza dei Paesi arabi, giovani musulmani emarginati, e anche giovani convertiti della borghesia europea piccolo-media, che sentono il bisogno di riscattare la loro esistenza con un grande «salto di qualità». In sostanza, tutte queste reclute di Daesh dichiarano che preferiscono «combattere o morire per il Profeta» piuttosto che accettare lo stato di cose esistente. E questo costituisce un grande motivo di allarme soprattutto in questo periodo di crisi economica, in cui i giovani stentano a integrarsi nel mondo del lavoro e a costruire una famiglia, su entrambe le sponde del Mediterraneo.

L’imposizione del potere e la distorsione del concetto di Ridda.
L’imposizione del nuovo potere califfale del Daesh avviene come è noto applicando una violenza indiscriminata contro tutti coloro che non si adeguano immediatamente a una formulazione della sharīʿa intesa nel senso più assolutistico, come vero e proprio “terrore rivoluzionario”. Anche in questo caso la nuova classe dirigente che si raccoglie intorno ad al-Baghdadi cerca legittimarsi citando un versetto del Corano (Q. 4, 89) e diversi Hadith che, secondo molti interpreti, autorizzano la condanna a morte «per apostasia» (ridda). La realtà è ben diversa da quanto però predicato nei testi storici. I guerriglieri ricorrono in realtà a una giustizia sommaria, cioè passano per le armi senza alcun processo sia i musulmani sciiti, sia le numerosi minoranze etniche e confessionali che popolano l’Iraq: curdi, yazidi, assiri (cristiani), turcomanni  sciiti  vengono deportati e massacrati, e le donne sono ridotte in schiavitù e assegnate come concubine, o vendute come schiave alla forza combattente. 
Invece di pretendere un’ imposta speciale da parte dei non-musulmani, come più volte praticato nella storia politica dell’Islam, Daesh passa all’esproprio diretto e totale di immobili, depositi bancari e ogni altro bene appartenente ai non musulmani. Questo esproprio permanente tocca in alcuni casi, sullo stile di un esercito di occupazione più che di un potere legittimo, le stesse popolazioni sunnite delle zone di Mosul e Raqqa. Insomma, la violenza apocalittica del nuovo Califfato, piuttosto che «amministrare i credenti», scatena flussi di migliaia di profughi terrorizzati.

Nel settembre 2014 oltre 120 studiosi musulmani di tutto il mondo hanno indirizzato una lettera aperta al Califfo, rifiutando le interpretazioni che egli dà del Corano e degli Hadith per giustificare le sue azioni. Nella lettera si definiscono queste azioni come dei veri e propri «atroci crimini di guerra», accusando il Califfo di fomentare la Fitna, ovvero la contrapposizione e la guerra civile tra musulmani.

La neo-economia califfale

Un altro aspetto innovativo, ma al contempo tradizionale del Daesh consiste nel fatto di affiancare alle tradizionali forme di finanziamento del ǧihād sunnita anche una propria autonomia economica: alle appropriazioni e confische si somma la conquista di pozzi petroliferi nel nord della Siria. La grande disponibilità di risorse e attività dà autorevolezza e consistenza inedite al nuovo messaggio Jihadista.
Mentre al-Qā‘ida è basata su una rete transnazionale di militanti costantemente impegnati a non farsi localizzare, mimetizzandosi tra le popolazioni locali in Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, ecc., Daesh al contrario si insedia e si localizza in una vera e propria economia territoriale di tipo para-statuale. Capitale della nuova entità è al-Raqqa, dove i nuovi dominatori hanno ripristinato l’erogazione dell’energia elettrica, dei servizi sociali di base e dei trasporti.
Inoltre, tra le comunicazioni divulgate dagli uffici amministrativi del Califfato vi è il progetto di coniazione di un nuovo «Dinaro Islamico». Gesto per il momento solo simbolico, che però afferma il diritto formale del Dāʻsh di emettere una moneta legittima. D’altra parte, chi si aggiunge a Daesh, ottiene lasciapassare e documenti amministrativi rilasciati dal nuovo centro di potere.

Ideologia confessionale

La matrice ideologica e confessionale di partenza della nuova compagine è parzialmente affine all’ideologia jihadista di al-Qā‘ida. Vi affluiscono spezzoni dell’ideologia remota degli integralisti islamici tunisini dello scorso secolo, e dei Fratelli Musulmani egiziani, che furono i primi a formulare nella modernità la necessità del ǧihād mondiale (prima di convertirsi a un progetto di conquista del potere per via legale). Vi sono poi elementi della predicazione che si rifanno al salafismo hanbalita (risalente agli scritti di Ahmad b. Hanbal, 780-855) e wahhabita (risalente agli scritti di Muhammad b. al-Wahhab, 17031792). Questa corrente afferma il «ritorno alle origini» delle prime comunità di credenti, e rivendica il diritto di un accesso diretto nell’interpretazione in proprio del Corano e della sunna profetica, senza accettarne le versioni moderne. Applica al Corano una rilettura e una interpretazione in chiave «autentica e letterale», che viene adattata con grande agilità a tutte le esigenze della vita moderna: vengono riscritti i programmi scolastici, si applicano divieti estensivi verso la musica pop, il fumo di sigarette, e perfino del narghilé, che pure sono pratiche diffusissime in tutto il mondo islamico. La volontà di «purificare» la comunità impone il velo integrale o niqāb a tutte le donne, cui viene prescritto di rimanere in casa salvo casi di necessità. . In alcune aree della nuova amministrazione territoriale si è arrivati a proibire lo studio della matematica in età infantile, sostituendola con l’apprendimento a memoria del Corano. Sono proibiti anche la maggior parte degli sport, e l’assistere a spettacoli sportivi anche in Televisione.
L’applicazione integrale della sharī’a, può incontrare simpatie e sostegni dall’estero, come in parte dell’opinione pubblica saudita, che vi vede un rispetto letterale dell’ideologia di origine wahhabita propugnata dalla dinastia al potere. L’aspetto più attraente, sul piano della simpatia e del sostegno ideologico, rimane comunque il ripudio della modernità occidentale.
L’aspetto più paradossale riguarda invece la grande disinvoltura con cui i nuovi capi guerrieri, che proibiscono nel loro territorio l’accesso ai mass media, fanno uso di Internet e dei social media per la loro propaganda mondiale. In decine di video confezionati con grande perizia produttiva si enunciano i principi di combattimento, o si mostrano dei macabri rituali di decapitazione di ostaggi (perlopiù occidentali). Quest’ultima attività, oltre a destare orrore e sgomento nelle opinioni pubbliche occidentali, ha anche una valenza di comunicazione e di rivendicazione inter-islamica: al pari della Casa regnante saudita, che ha tra i propri privilegi la comminazione di pene corporali severissime, e di decapitazioni trasformate in spettacoli pubblici, Daesh rivendica in questo modo la propria «legittimità statuale» mostrando delle «pubbliche esecuzioni» su Internet.

La frattura generazionale

Un tratto fortemente innovativo di Daesh, e del nuovo jihadismo in genere, è l’età media di poco superiore ai vent’anni della maggior parte delle nuove reclute. Ma soprattutto il fatto che molti dei capi combattenti irridano apertamente ai centri di elaborazione universitaria, agli imām e ai maestri di studi coranici anziani, ripudiandoli come «venduti e schiavi dell’Occidente». Alcuni «predicatori combattenti» del Dāʻsh hanno un’età di 24-25 anni, cosa inedita nel mondo dell’estremismo confessionale, che in pochi mesi ha fatto apparire alcuni capi terroristi, come Ayman al-Zawahiri (al-Qā‘ida) come dei relitti del passato.


             
Bibliografia 



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CAMPANINI, M.,  Il pensiero islamico contemporaneo, il Mulino, Bologna 2005.

CAMPANINI, M.,  Oltre la democrazia. Temi e problemi del pensiero politico islamico, Mimesis, Milano 2014. 

GELVIN, J. L., Storia del Medio Oriente moderno, Einaudi, Torino 2009. 

HAARMANN U. (ed.), Storia del mondo arabo, Einaudi, Torino 2010. 

LEWIS, B., Il linguaggio politico dell’Islam, Laterza, Roma-Bari 2005. 

MERAD, A., Le Califat, Desclée de Brouwer, Paris 2008 

MERVIN, S.,  L’Islam. Fondamento e dottrina, Bruno Mondadori, Milano 2001.

SCHULZE, R. Il mondo islamico nel XX secolo. Politica e società civile, Feltrinelli, Milano 2004 . 


NAPOLEONI , L., ISIS. Lo stato del terrore. Chi sono e cosa vogliono le milizie islamiche che minacciano il mondo, Feltrinelli, Milano 2014.

ORSINI, A., ISIS. I terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli, Rizzoli 2016. 



mercoledì 22 giugno 2016

CORSO INTRODUTTIVO AL DIRITTO ISLAMICO




CUM-VERONA 22-23 GIUGNO 2016

Dott.ssa Rosanna Budelli
Sintesi: Paolo Cugini

La legge islamica è l’aspetto più importante della religione, anche della teologia. Occorre pensare come i mussulmani guardano la religione. Hanno un rapporto fideistico: accettazione in toto quello che c’è nel Corano. La teologia islamica è apologetica ed è stata influenzata dalla filosofia greca. Erano pochissimi coloro che si sono dedicati alla teologia. La prima scuola teologica aveva una tendenza razionalista dell’Islam.

La legge islamica ha la pretesa d’investire tutti gli aspetti della vita dell’uomo, anche il rapporto con Dio. La preghiera appartiene alla legge islamica: se non prega c’è la punizione. Anche il comportamento minimo, come si sta a tavola, o l’abbigliamento, ecc.
La legge è un tentativo di sacralizzare l’atto umano in ogni suo aspetto.
Saria: insieme di norme che è stato dedotto dal Corano e dal Profeta. E’ la via da seguire.
Il fatto di avere tutta la vita basata su delle regole è molto confortante per molti credenti.
Ibadat: atti di culto.
Mu amalat: rapporti tra gli uomini.
La legge islamica segue il credente ovunque vada: non ha base territoriale.
Sura: mecca
Corano: 600 versetti dedicati a questione giuridica, in gran parte concentrati sulle sure medinesi.
Eventuali incongruenze tra versetti sono risolte con la teoria dei versetti abrogati e abroganti di cui parla lo stesso Corano.
Il Corano non è organizzato cronologicamente. Le ultime sure son le più antiche. Ci sono due tipi di sure: meccana o medinese.
I versetti abrogati sono di solito i più restrittivi.
I versetti medinesi sono più severi.

 Il Corano è considerato come la Parola di Dio trasmessa al Profeta senza mediazione e dunque eterna e increata. Da qui il valore metastorico delle norme in esso contenute, secondo la lettura più radicale. E’ la comunità islamica che deve adattarsi alla legge e non viceversa.
Ci sono sempre tentativo di ritorno alla lettera del Corano.
La Sunna: costume del Profeta. È rappresentata dall’insieme delle raccolte di hadit, ossia le brevi notizie biografiche che riferiscono dei detti, dei fatti o dei silenzi del Profeta in determinate occasioni. I mussulmani ritengono che ci sono solo 6 hadit autentiche, tra queste due su tutte.
Hadit rispetto al Corano è quello che sono i Vangeli rispetto la Bibbia. Nei hadit c’è stata mediazione.

L’ijma: è l’accordo degli esperti su precise questioni. Il principio è giustificato da un famoso detto del Profeta: La mia comunità non si accorderà mai su qualcosa di sbagliato.

Il qiyas: analogia. Indica l’applicazione del ragionamento analogico quando occorrono casi giuridici che sono simili, ma non propriamente identici a quelli contemplati nelle fonti.
Qualsiasi cosa che è al di fuori dei testi è già una novità e quindi non va bene. Anche l’analogia può essere un esempio che può manipolare la legge.

Ra’y: opinione personale del giudice. Solo alcune scuole lo aggiungono.

Fiqh: applicazione del diritto. Le fonti del diritto rientrano negli usul al fiqh (i fondamenti della giurisprudenza), mentre l’applicazione pratica dei principi generali rientra nei furu (le branche della giurisprudenza).
Le scuole giuridiche divergono sui furu.
Il Corano non prevede tutti i casi giuridici. Quando manca il testo si creano nuove leggi.

Ijtihad: attività ermeneutico-deduttiva dei giuristi.
Si considera l’ijtihad oramai chiuso, a partire dal XI-XII secolo d. C. Da quel momento storico invalse il taqlid (l’imitazione pedissequa degli antichi).
E’ con il califfato abbaside che i giuristi hanno cominciato a raccogliere la legge, cioè a partire dall’8 secolo.
La materia è chiusa. Ormai ci siamo allontanati troppo dall’epoca del profeta. Più ci allontaniamo dalla vita del profeta e più infedeli siamo. Allora non abbiamo più il diritto d’intervenire sulla legge.
La vita del profeta è stata l’epoca d’oro dell’Islam. Occorre imitare l’epoca d’oro delle origini.

LE PRINCIPALI SCUOLE GIURIDICHE
(MADAHIB)
SCUOLE SUNNITE
1.      HANAFITA: è considerata la più aperta. Divenne la scuola ufficiale degli Ottomani. Prevede un ampio ricorso all’opinione personale del giurista, alla consuetudine e a valutazioni di opportunità.
  1. Mälikita, fondata da Mälik Ibn Anas (m. 795), è la più seguita nell'Africa Nord-occidentale (Maghreb). Ammette il ricorso, in casi eccezionali e particolarissimi, al principio del "bene supremo della comunità" (maslaka) che consente di superare alcuni ostacoli della Legge. LA comunità è un bene superiore al singolo.

  1. šãfi'ita, da Muhammad al-šäfi'ï (m. 820). Riduce l'uso dell'analogia e dà più importanza alla Sunna, ma solo in quelle parti direttamente risalenti al Profeta (si escludono i hadït che hanno come referente ultimo un compagno del Profeta). È diffusa soprattutto in Egitto, ma anche in Bahrein, Yemen, India, Indonesia, Africa Orientale.

  1. Hanbalita, il suo maestro Ibn Hanbal (m. 855) sosteneva la supremazia dei testi rispetto alle altre fonti. E’ considerata la scuola più severa in assoluto.  Rifiutava il ragionamento personale e l'analogia come fonti del diritto. È la scuola cui si ispira la corrente wahhabita (fondata da 'Abd al-Wahhãb nel XVIII secolo) diffusa in Arabia Saudita.

L’Islam sunnita non ha una vera e propria gerarchia, ma ci sono le università teologiche che hanno l’ultima parola. L’università del Cairo è considerata la più importante dei sunniti.

Ai giudici islamici è, tuttavia, consentito rivolgersi alla scuola giuridica che comporta pene più favorevoli all'imputato.

Le scuole sciite:
Gli sciti aggiungono i detti, hadit di Ali.
1)      La scuolaja'farita (Libano, Iran, Iraq)
2)      La scuola bätinita (Oman)
3)      La scuola zaydita (Yemen)
Il diritto sciita non differisce molto da quello sunnita se si fa eccezione per alcuni furü ', sia nella sezione del culto (rituale della preghiera, festa dell'ašura') sia per quanto concerne le mu 'ämalät (diritto successorio, testimonianza femminile )
Per quanto concerne il diritto di famiglia, una differenza importante è nel riconoscimento da parte della scuola ja' farita del matrimonio mut 'a ("matrimonio di piacere" o "temporaneo").
Gli sciti sostengono che Mohamed è venuto a portare la legge ed Ali a portare l’interpretazione spirituale. Ali ha assunto una dimensione in alcune situazione d’importanza maggiore del profeta.
A livello escatologico i sunniti sostengono che sarà Gesù a giudicarci.
Gli sciti sostengono che sarà l’ultimo iman che verrà.
Dal punto di vista giuridico i punti sono più o meno gli stessi.

L’Islam vuole sacralizzare tutti gli atti umani.

Definizione di atto umano:
Ogni atto dell'uomo rientra nella sfera giuridica e può essere classificato in base a queste categorie:
wãjib (obbligatorio): se non lo si compie si merita una punizione in questo e nell'Altro mondo. L'obbligo può essere individuale (fard 'ayn), come la preghiera, o collettivo (fard kifäya) come il jihad;
I.tarãm (vietato): se 10 si compie si merita una punizione in questo mondo e nell'Aldilà. Comprende reati gravi come (apostasia, furto, bere vino, ecc. ).
mandüb (raccomandato): se non lo si compie non si merita alcuna punizione, se lo si compie si sarà ricompensati in Paradiso (ad esempio gli atti caritatevoli).
makrül.t (biasimevole): atto lecito, per cui se lo si compie non si merita alcuna punizione, ma se non lo si compie si ha una ricompensa nell'Aldilà (es. il ripudio).
mubãl.t (indifferente): atto permesso, ma moralmente indifferente; non si merita né punizione né ricompensa ne110eseguirlo.

"I limiti di Dio" ("udüd Allah),

Hadd PI. hudüd (limite, confine). Sono i reati per cui è prevista un' esplicita punizione nel Corano.
Tra i reati-hadd si trovano:
1.    Apostasia e blasfemia
2.    Le relazioni sessuali illecite
3.    Falsa accusa di adulterio
4.    Furto
5.    Ribellione contro i governanti
L'elenco è in Cor. LX, 12, riferito, in quel caso, specialmente alle donne.
Per l'omicidio è previsto il     ("taglione") oppure una compensazione (diya, prezzo del sangue), cfr. Cor. 11, 178-179, 194; V, 45; XVII, 33; XLII, 39-41.
Le pene che non sono previste esplicitamente nel Corano sono punite con il ta'zïr, la discrezionalità del giudice: ad es. per l'usura, il gioco d'azzardo, ecc.

Gli Statuti Personali

Nelle legislazioni moderne la šarï'a è applicata soprattutto nei campi concernenti il diritto della persona, i cosiddetti Statuti personali, che si occupano specialmente di famiglia, filiazione, diritto ereditario (sura 4).

Applicabilità della šarï'a

A differenza del concetto di legge che prevale nella civiltà occidentale e cioè il "diritto positivo" che regola specialmente il rapporto tra le persone e che vige in un determinato ambito politico-territoriale e in un preciso spazio di tempo, la Legge islamica, nella sua interpretazione più radicale, si pone in una dimensione metafisica e metastorica.
Interpretazioni più moderate parlano di una legge come "riferimento morale" o dividono i versetti coranici in meccani e medinesi, dando un'interpretazione storicistica della II parte della rivelazione.
Il mondo arabo ha conosciuto un processo di laicizzazione nel novecento. Le donne non portavano il Velo. Dagli anni ’90 in poi c’è stato una maggiore contrapposizione al modello Occidentale e quindi un restringimento.
I versetti meccani sono più spirituali e i versetti medinesi sono più concreti e quindi non sono più adatti alla società moderna. Oggi assistiamo ad un restringimento rispetto ad un recente passato.

Bibliografia

F. Castro, Diritto musulmano, Torino 1990
J. Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Torino, Fondazione Agnelli, 1995, p. 121 D.
Santillana, Istituzioni di diritto musulmano mälichita con riguardo anche al sistema sciafiita, Roma, IPO, 1926, 2 voli.





martedì 21 giugno 2016

IL CALIFFATO NELLA STORIA DELLA UMNA




CORSO ISLAM
CUM VERONA 20-23 GIUGNO 2016



Prof. Celeste Intartaglia (PISAI)
Sintesi: Paolo Cugini


Agli inizi del VII secolo Muḥammad si presenta come “Inviato di Dio” (rasūl Allāh),  incaricato di portare agli uomini un messaggio (risāla) che viene a completare quelli precedenti, e che ha carattere definitivo e universale.  Tuttavia Muḥammad, che alla Mecca è stato solo profeta e predicatore, diventa a Medina anche capo politico, guerriero e legislatore. Diventa il capo di una umma, una comunità di fratelli ed eguali, composta da credenti (mu’minūn) che hanno accolto la sua predicazione, e che sono legati da un patto di fedeltà e protezione. La umma, “comunità di credenti”, diventa presto ummat al-muslimīn, la “comunità dei musulmani” e in tempi più recenti la umma islāmiyya, la “nazione musulmana”.  

I musulmani individuano tre punti di svolta nella storia della loro comunità.
1. Il primo, subito dopo la morte del Profeta, che i Compagni risolsero pensando di prolungarne l’opera organizzando uno stato la cui missione era quella di mettere in pratica gli insegnamenti della nuova religione - diffondendone il più possibile il “messaggio” e facendo in modo che i musulmani potessero mettere in pratica i riti che li preparavano alla vita eterna – con a capo un califfo (ḫalīfa, successore) che possedeva qualità morali e religiose adatte allo scopo. 

Alla morte di Muḥammad, un vuoto alla guida della umma, e nessuna successione organizzata. Benché nel Corano vi sia menzionata la nozione di “califfato” (ḫilāfa), i versetti non sono abbastanza chiari. Tra questi, ad esempio:
-            Q. 2, 30 : E quando il Signore disse agli angeli: “Ecco, io porrò sulla terra un mio Vicario”, essi risposero: “Vuoi mettere sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi cantiamo le Tue lodi ed esaltiamo la Tua santità? Ma Egli disse: “Io so ciò che voi non sapete”,  che è l’unico versetto che legittima l’istituzione califfale come sostituto del Profeta;  
-            Q. 38, 26 : O David! Noi t’abbiam costituito Vicario sulla terra, giudica dunque tra gli uomini secondo verità e non seguir la passione che ti travierebbe dalla Via di Dio, e quelli che deviano dalla via di Dio avranno castigo violento, per aver dimenticato il giorno del Conto,
che sarebbe invece all’origine del titolo di califfo inteso come capo della comunità islamica. 


Ci si ricorda allora che l’anno precedente alla sua morte, Muḥammad aveva designato Abū Bakr a presiedere la preghiera al suo posto. Per la comunità di Medina, questa scelta fu determinante, poiché ritenevano che colui che il Profeta aveva giudicato degno di fare le sue veci per quanto riguardava il culto (dīn), era a maggior ragione degno di fare le sue veci nelle questioni temporali. È così che Abū Bakr diventa il successore di Muḥammad, per acclamazione da parte del gruppo dei Compagni più vicini al Profeta, e che dopo tre giorni riceve la bay‘a da parte degli altri musulmani e viene riconosciuto ḫalīfat al-rasūl, cioè successore dell’Inviato di Dio. 
Prima di morire, Abū Bakr nomina lui stesso un successore, ‘Umar. Questi decide che i sei Compagni del Profeta riuniti nella šūrā avrebbero dovuto scegliere al loro interno chi doveva poi succedergli. È ‘Uṯmān che beneficia della bay‘a, ma poi il quarto califfo, ‘Alī, non viene riconosciuto tale da tutta la comunità. Per la prima volta, scoppia una guerra civile che oppone i musulmani e che preparerà alla divisione della comunità. 
Il califfo assumeva, in linea di principio, le prerogative legate alla persona del Profeta, ad eccezione della rivelazione: la missione profetica era terminata, e dunque i califfi, che gli successero come capi della comunità musulmana, avevano il compito di salvaguardare il messaggio da lui già trasmesso  e continuare e sviluppare la sua opera politica.  
Questo “regime” durò circa trenta anni, fu segnato da scontri interni; tre dei quattro califfi “ben guidati” furono assassinati, e nonostante ciò la comunità ne ha conservato un ricordo meraviglioso; forse perché il loro potere non è mai stato percepito come imposto alla comunità, ma come qualcosa che derivava dalla comunità stessa e che ne traduceva le aspirazioni. 
Ciò che sembra aver maggiormente contato per i musulmani è il fatto che questi califfi non si consideravano come dei “sovrani” aventi ogni diritto sui propri sudditi, ma piuttosto come dei gestori responsabili del benessere generale della comunità, animati dal senso dell’etica e dalla visione religiosa. In altre parole, il ruolo della persona investita della funzione califfale consisteva essenzialmente nel prendersi carico della salvaguardia del culto e vegliare alla perennità dei valori culturali dell’identità islamica: l’unitarismo, la solidarietà, il precetto del comandare il bene e proibire il male (al-amr bil-ma‘rūf wa-l- nahy ‘an al-munkar), la giustizia e il comportamento corretto (iḥsān). 
Il regime dei califfi ben guidati è così diventato, agli occhi dei musulmani, il simbolo del sistema islamico giusto, rispettoso, allo stesso tempo, dei principi religiosi e degli interessi della comunità. 

        
2. Il secondo, quando la comunità islamica aveva già raggiunto le dimensioni di un impero (cioè un insieme di popoli di diversa origine e lingua riuniti sotto un unico governo e in un unico territorio), con l’instaurazione di un “regime” che conservò inizialmente la forma e il titolo di califfato, ma che adottò il sistema della monarchia ereditaria e le strutture militari e amministrative degli imperi di cui aveva preso il posto (bizantino e sasanide). 
Con l’instaurarsi di un potere di natura strettamente politica nacque la categoria degli ‘ulamā’ (gruppo che comprendeva anche imām, muftī e qādī, oltre ai fuqahā’), uomini dotati di conoscenza e competenza in materia religiosa che avevano il compito di   interpretare il Testo sacro ed applicare i precetti in esso contenuti o da esso derivati. Tali funzioni erano state affidate in precedenza a uomini pii, Compagni del Profeta o Successori della prima generazione (Salaf); col venir meno di queste generazioni, emergono nuove figure di studiosi, e presto si creano delle specializzazioni (muḥaddiṯ, mufassir, faqīh). Questi ‘ulamā’ avevano anche il compito di applicare le leggi derivate a partire dal Testo sacro e dalla Tradizione (senza esserne peraltro gli “autori”) e di praticare le funzioni giudiziarie.
Questa distribuzione del potere è stata definita da alcuni studiosi “compromesso medievale”, che si traduce in una relazione fra tre parti: 
-  i governati (le masse popolari), 
-  i detentori del potere politico, 
-  gli uomini di religione (a questi si sono poi aggiunti i “mistici”, che hanno contribuito a dare alla religione un contenuto spirituale vivo e d’altra parte a diffondersi nell’ambiente popolare e a divenire un tratto particolare delle società musulmane). 
Questa sorta di “compromesso” è stato predominante, seppure con varianti regionali, nelle società musulmane durante i secoli che hanno separato la fine del primo sistema di califfato dalla nascita degli Stati moderni nei secoli XIX e XX, benché in una prima parte con grande dinamismo e creatività sul piano culturale, artistico ed intellettuale, e nei secoli successivi siano stati invece dominati dalla ripetitività, dall’imitazione e dalla chiusura morale e culturale. 
Le realtà delle istituzioni statali nate dalla disgregazione del califfato abbaside si espressero in una copiosa letteratura sulla teoria politica. Possiamo distinguere tre filoni, accomunati dalla comprensione dell’importanza della comunità e delle politica:
-  una dottrina sunnita del califfato, ad opera degli ‘ulamā’; 
-  una letteratura di ispirazione persiana sul genere degli specula principis, presente nelle corti; 
-  una teoria filosofica dello stato ideale, composta da commentatori di Platone e Aristotele. 

Punto primo. La dottrina del califfato basata sul binomio sunna - šarī‘a era esposta in trattati teologici e giuridici: il capo della comunità governava per attuare la šarī‘a e guidare la umma al bene supremo. Gli autori dunque cercavano di spiegare perché dovesse esserci un califfato, quali erano le finalità, come si sceglieva il califfo, quali i suoi requisiti, che cosa determinava gli obblighi dei sudditi. 
Prima della metà del X secolo il dibattito riguardava due punti: chi aveva diritto a rivestire la carica di califfo e che cosa garantiva che il califfo fosse capace di adempiere i suoi doveri.  Nei secoli X e XI diventa chiaro che i califfi non potevano più sostenere il loro ruolo politico e religioso: i sultanati avevano spogliato il califfato del suo potere reale e le dispute “settarie” ne avevano ridotto l’autorità religiosa. 
I teorici sunniti si adattano a queste realtà. 
Il giurista al-Māwardī (972-1058), nella sua opera Aḥkām al-ṣulṭāniyya (I princîpi del governo), intendeva dimostrare che i doveri primari del califfo erano quelli di fare in modo che la religione non tradisse le sue origini storiche, di far rispettare le decisioni giudiziarie e di proteggere i popoli dell’Islam. Tuttavia non era affatto un nostalgico; si rendeva conto della necessità di ribadire l’autorità del califfato in un momento di crisi, e dunque focalizza il pensiero sulla “delega dell’autorità”, le condizioni necessarie per l’investitura e la condotta di tutte le categorie di funzionari governativi e i requisiti personali e morali richiesti per ciascuna di esse. 
Si avverte dunque la necessità di elaborare una dottrina del califfato per presentarlo come il simbolo di quel che doveva essere lo stato islamico ideale, quando lo stato islamico ideale non esisteva più; in altre parole, più che della descrizione di uno stato islamico, di un modello islamico di stato. 
Anche al-Ġazālī (1058-1111) opera una sintesi di fedeltà alla tradizione religiosa e consapevolezza della realtà politica. Si rende conto che per raggiungere il fine del califfato (protezione della tradizione del Profeta e della legge musulmana, unità della umma e sua preminenza nel mondo), era necessario assimilare i sultanati “turchi” subordinandoli al califfato, riformare l’amministrazione, e soprattutto usare i poteri del sultano e dei califfi per combattere i nemici dell’islam, in primo luogo gli sciiti. Era anche importante educare il musulmano al rispetto della vera fede e della vera legge. D’altra parte, era abbastanza realista da riconoscere che spesso erano i signori militari a nominare i califfi, i quali, a loro volta, ne legittimavano il potere; dunque, nella sua teoria nel governo musulmano, l’autorità dei califfi doveva coesistere con l’effettivo potere dei musulmani. 
Nel frattempo, si va affermando il principio dell’obbedienza; per paura della guerra civile, si doveva accettare come necessario qualsiasi governo. Con la disgregazione del califfato (1258), i pensatori sunniti espressero una concezione del governo islamico basata sulla collaborazione tra governanti e ‘ulamā’.  Il califfo in questo periodo è chiamato iman.
Ibn Taymiyya (1263-1328), eminente studioso hanbalita che scrisse numerose opere su molte questioni religiose, compendiò la tendenza a fare degli ‘ulamā’ il centro degli interessi religiosi e sociali dei musulmani. Prese parte di persona a numerose iniziative volte a denunciare i nemici della šarī‘a, che riteneva la forza essenziale per la vita quotidiana dei musulmani: combatté la teologia speculativa, le varianti del sufismo metafisico, la venerazione dei sepolcri, guidò spedizioni contro gli ismailiti sulle montagne del Libano, la resistenza dei musulmani di Damasco contro le invasioni dei mongoli. Con Ibn Taymiyya si inaugura quella che verrà definita dagli stessi autori la siyāsa šar‘iyya, cioè un modello di politica conforme alla šarī‘a. La parola siyasa ha a che fare con l’addestramento dei cavalli. Ibn Taymiya accantona la tradizionale definizione del califfato e definisce i governi musulmani a seconda della loro effettiva autorità e di quanto tenessero conto dei consigli degli ‘ulamā, devono insegnare i eri principi. C’è un ritorno alle origini. Occorre comandare il bene e vietare il male.  Una nuova concezione dello stato e della società, dove gli attori principali sono ora gli ‘ulamā’, non i califfi, e dove è rivendicato per gli “arabi” un ruolo nei regimi militari “stranieri”. 
La fatwa è un parere giuridico. Taymiyya ne emanò molte. Non in tutti i paesi c’è un’autorità suprema della fatwa. C’è in Turchia e in Arabia Saudita. Tra gli sciti la situazione è diversa. Tra gli sciti c’è un’organizzazione del clero gerarchica. Se la fatwa è emanata da una persona eminente, ha un valore maggiore. Ci sono tante fatwa di tanti autori diversi, ma non sono obbligatorie, anche se nel mondo scita ha valore di comando e di obbligo. Nel mondo sunnita le fatwa non sono vincolanti.
Dunque la teoria politica sunnita si è lentamente modificata, fino a ridimensionare la figura del califfo ed accettare la realtà del sultano e del dotto (‘ālim) come figure chiave dell’ordinamento politico musulmano. 

Punto secondo. Mentre la teoria sunnita si sviluppava negli ambiti religiosi, il genere dello speculum derivava da un tradizionale filone persiano di manuali sulla dottrina dello stato. Le prime opere di questo genere furono tradotte nei secoli VIII e IX per i califfi abbasidi; le crisi dei secoli X e XI generarono una nuova ondata di tali opere, scritti da funzionari pubblici e da dotti religiosi, che stabilivano le regole del buon governo per i nuovi signori turchi. 
Il più importante trattato del genere fu Il libro del governo (Siyāsat nāme) scritto da Niẓām al-Mulk (n. 1092) che esorta il sultano a rendere giustizia e gli da consigli sulle tecniche di governo. Un’altra opera importante è il Qābūs-nāme di Kay Ka’ūs (m. 1082) che compendia la saggezza di un re che da consigli al figlio in materia di agricoltura, delle professioni, dello stato, al fine di insegnare a un giovane come essere “uno statista, un gentiluomo e un buon musulmano”. Anche al-Ġazālī scrive un’opera di questo genere, Libro dei consigli ai re (Naṣīhat al-mulūk), in cui sottolinea l’importanza della giustizia e della disciplina; la principale responsabilità del governante è quella di sopprimere le eresie e le cattive azioni, mantenere in vita le tradizioni del Profeta, compensare i virtuosi e punire i malvagi: in sostanza mantenere l’ordine nella società (giustizia sociale) e diffondere gli insegnamenti della vera fede. Le virtù dei principi derivano dal timor di Dio; per mantenere la sua virtù deve consultarsi con gli ‘ulamā’ che gli insegneranno che cosa vuole Dio da lui e lo terranno lontano dalle innovazioni (bida‘). 

Punto terzo. Dal retaggio dei greci deriva il terzo filone di letteratura, quella dovuta ai commentatori arabi dei filosofi greci: tra questi al-Fārābī (m. 950), Ibn Sīna (Avicenna, 980-1037), Ibn Rušd (Averroè, 1126-1198). 
Al-Fārābī fu il principale teorico politico appartenente alla tradizione filosofica. Dedicò alla questione le opere Kitāb al-siyāsa al-madaniyya (Sul governo politico) e Kitāb arā’ ahl al-madīna al-faḍīla  (Le opinioni degli abitanti della città virtuosa), in cui traccia uno stato ideale: un primo stadio è retto dal filosofo – profeta - governante, che con la sua presenza personale ispira una società virtuosa. Il secondo stadio è quello in cui lo stato è governato secondo le regole stabilite dall’originario  profeta – governante, che corrisponde alla società islamica governata dalla legge rivelata, sotto la guida di un sovrano che la fa applicare. 
Anche Ibn  Rušd tracciò, nel suo commentario alla Repubblica di Platone un ampio quadro dell’universo spirituale e del posto che vi occupa la società umana.  
In tutte queste forme di teoria politica musulmana il fondamento è la premessa secondo la quale il fine nell’ordine sociale è la formazione di individui che vivano rettamente e in armonia con la verità in questo mondo, preparandosi così a conseguire la salvezza in quello che verrà. La società politica è essenziale alla realizzazione di questa perfezione; e richiede un buon governante. Il sovrano simboleggia il legame con Dio; la sua persona è enfatizzata perché simboleggia non solo l’aspirazione alla giustizia politica, ma anche la speranza di raggiungere la perfezione religiosa individuale.  Averroè si dice che studiò tutti i giorni della sua vita eccetto quando si sposò e quando morì suo padre.

3. (Il terzo). Infine, questo sistema socio-politico è messo a dura prova quando le pressioni europee si fanno più forti a partire dal secolo XVIII e nel XIX. 
L’Impero Ottomano, la maggiore entità politica del mondo islamico, e che in un certo senso si riteneva ed era considerata rappresentare tutti i musulmani, finisce per essere frammentato ed eliminato, ma prima ancora altri regimi e società musulmane erano finiti sotto la dominazione diretta o indiretta delle potenze europee. Ciò costituisce una nuova svolta nella storia dei musulmani: è l’inizio del loro confronto con condizioni che non avevano mai provato prima, il punto di partenza di trasformazioni profonde nell’ambito delle loro società e della loro visione di sé stessi e del mondo. L’evoluzione si è accelerata da quando certe istituzioni moderne sono state introdotte e messe in pratica, tra cui principalmente lo Stato moderno.
L’abolizione del califfato, un preciso avvenimento storico, ha costituito dunque il punto culminante di un processo evolutivo iniziato da più di un secolo e il punto di partenza di un rinnovamento generale del paesaggio intellettuale e morale nell’ambito della umma (“la comunità islamica”, l’insieme dei musulmani). 

-            È stata ad esempio, fin dalla fine del secolo XIX, la posizione di Ǧamāl al-Dīn al-Afġānī (1839-1897) che per la prima volta pone, in modo esplicito, l’opposizione necessaria e ineluttabile fra l’Islam e il mondo occidentale, e introducendola presso l’Università alAzhar. Al Afgani veniva da una sottomissione dall’Inghilterra. Questa esperienza personale influenza la sua produzione teorica. Spronava al ritorno alle fonti, il Corano e la sunna del profeta, e all’esempio degli antichi, i salaf. Dal punto di vista politico, era convinto che solo l’unità dei popoli musulmani e dei loro stati, quando poi formati, e liberi dal giogo coloniale, avrebbe potuto garantire una effettiva rinascita dell’Islam. Sognava perciò di investire il sultano ottomano, nei cui confronti era tuttavia molto critico del compito di rappresentare le istanze di unità dei popoli islamici. La sua era una prospettiva pan-islamica, al cui centro vi era l’idea di califfato.  Non riuscì a formare una sua scuola con dei seguaci.
-            Un altro contributo importante fu quello portato da Rašīd Riḍā (1865-1935), che compose un trattato, pubblicato nel 1922, dal titolo Il Califfato o imamato supremo (al-ḫilāfa aw alimāma al-‘uẓmā). E’ di mentalità più rigida rispetto al suo maestro al Afgani. In Turchia, l’Assemblea Nazionale presieduta da Mustafa Kemal aveva appena proclamato la fine dell’istituto del sultanato, assorbendone le funzioni, e si preparava ad abolire anche il Califfato, che per il momento resta una pura guida spirituale. La cancellazione della realtà storica del simbolo dell’unità della umma aveva suscitato lo sconcerto dei pensatori musulmani, con dibattiti e proposte.
Riḍā propose di rinnovare il califfato partendo dai presupposti della dottrina classica (con il recupero di concetti quali šūrā, iǧmā‘, bay‘a, appartenenza qurayshita), ma vi aggiunge alcune idee originali. Il califfo non incarnava un potere personale, ma doveva essere al servizio della Comunità, e soprattutto garante della sua unità. Il popolo era il depositario del diritto dell’autorità, dunque poteva anche deporre un califfo indegno. Il corpo degli ‘ulamā’ (nella dottrina classica definiti come “coloro che hanno il potere di sciogliere e legare”) corrispondeva all’istituzione parlamentare.  Propone dei convegni alla Mecca per vedere se c’è la possibilità di rispolverare la nomina a Califfo. Ma non ebbe esito, perché nessuno volle avere la sovranità su un altro stato. Dopo la seconda guerra mondiale vennero create delle confederazioni. Gheddafi aveva l’idea dell’Unità araba, ma non riuscì mai a realizzare il suo sogno. Con l’avvio degli tati nazionali divenne difficile creare il Califfato.

Shura: consiglio che elegge, consultazione.
Igma: è l’opinione comune dei dotti. E’ una delle fonti di diritto secondarie.
Baya: riconoscimento formale del sovrano. Il darsi la mano dopo un contratto.
Qurayshita: tribù del profeta.
Al califfo erano richieste qualità fisiche: non poteva essere cieco, zoppo, non doveva essere pazzo.

-            Una opinione opposta venne sostenuta da un altro pensatore, anch’egli fra gli ‘ulamā’ di al-Azhar, ‘Alī ‘Abd al-Rāziq (1888-1966), che nel 1925 pubblicò L’Islam e i fondamenti del potere (al-Islām wa-uṣūl al-ḥukm). Sebbene la dottrina classica considerasse il califfato come un dovere religioso, ‘Abd al-Rāziq sostiene invece che niente nel Corano e nella sunna prescrive il sistema del califfato, che egli accusa di essere stato un potere tirannico e oppressivo e che ha mal gestito la umma. Il suo contributo innovativo fu quello di aver sottolineato l’esigenza di un a secolarizzazione del pensiero islamico. Infatti, egli dice, che il profeta Muhammad aveva portato un messaggio esclusivamente religioso e spirituale, e che i primi quattro califfi avevano detenuto un potere esclusivamente politico, senza rapporto con la dimensione religiosa, che egli definiva come la relazione diretta con Dio e che considerava finita con la fine della Rivelazione e la morte del Profeta. Queste tesi suscitarono in Egitto vivaci reazioni: all’epoca l’Autore fu allontanato dall’insegnamento presso alAzhar; nel corso degli anni si sono poi succedute numerose confutazioni della sua opera.

-            Un’altra opinione in questo dibattito è quella del giurista egiziano ‘Abd al-Razzāq alSanhūrī (1895-1971), che pubblicò nel 1926 la sua tesi di dottorato in scienze politiche ottenuta a Lione con il Edouard Lambert (fondatore degli studi di diritto comparato). Come si vede già dal titolo, Le Califat. Son évolution vers une Société des Nations Orientales,  sosteneva che una lettura moderna del califfato doveva prevedere l’unità dei popoli islamici nella dimensione sovranazionale di una società delle nazioni islamica, dunque una società politica e non religiosa, che deve la sua dimensione sovranazionale non tanto alla comunanza di pensiero religioso, ma ad una cultura scientifica e sociale antica di secoli. Il suo obiettivo era quello di rifondare il diritto pubblico dell’Islam, a cui peraltro si dedicò negli anni successivi, dedicandosi a studi di diritto comparato e civile (al-qānūn almadanī).  Secondo lui non si doveva pensare alla religione, ma alla cultura. Voleva arrivare al rinnovamento del sistema giuridico.

Il dibattito sul califfato ha assunto una connotazione utopistica. Non c’è possibilità di realizzarlo. La possibilità della ricostruzione di un sistema califfale nel mondo contemporaneo, abbandonata di fatto dopo la sua abolizione, è ritornata a lavorare nell’immaginario dei musulmani tradizionalisti. 
L’abolizione del califfato ha prodotto nella storia dell’islam una ferita che sembra ancora non guarita, una profonda disillusione e uno choc, perché si perdeva la “continuità della comunità con le proprie origini”. Da ciò derivano due tendenze: da una parte, una tendenza spirituale e portatrice di speranza, dall’altra, una che combatte contro quella che sarebbe la causa dell’abolizione del califfato nel 1924. 
1.         Invece di disperarsi, una parte dei musulmani hanno preso a studiare le Tradizioni profetiche (ḥadīṯ) e vi hanno trovato che si è compiuta una profezia di Muḥammad (probabilmente spuria, ma si trova con più varianti, anche in Ibn Ḥanbal),  secondo cui : 
La profezia resterà fra voi fintanto che Dio lo vorrà, poi vi metterà fine. Vi sarà poi il califfato che seguirà la via profetica, che resterà fra voi fintanto che Dio lo vorrà, poi vi metterà fine. Poi verrà la monarchia, che resterà fra voi fintanto che Dio lo vorrà, poi vi metterà fine. Poi verrà la signoria tirannica, che resterà fra voi fintanto che Dio lo vorrà, poi vi metterà fine. Infine verrà il califfato che seguirà la via profetica. 
Questa tendenza vede il tempo attuale come quello governato dai tiranni, e attende pazientemente di veder risorgere il califfato sul modello profetico (ultima parte della profezia. I predicatori nutrono la speranza del ritorno dell’Islam potente come al tempo della sua grandezza e che sottometterà il mondo. 
2.         L’altra tendenza, invece, vede questa crisi come una umiliazione inflitta al mondo musulmano dall’Occidente, e dunque bisogna vendicarsi di esso
A quasi un secolo dalla sua abolizione, l’immaginario collettivo dei musulmani è preso dalla reminiscenza del califfato, fermento di unità della umma. Per questo, alcuni dei paesi musulmani hanno cercato mezzi e vie per rimettere in funzione il califfato, ma senza arrivare all’unanimità. Per i fautori del califfato, l’idea degli stati indipendenti sarebbe accettabile solo se per guidare la vita dei musulmani si applicasse la šarī‘a. Questi paesi, che hanno acquisito la loro autonomia nazionale, non saranno pronti a rinunciarvi a favore di un califfato. Una parte degli ‘ulamā’, poi, sostiene che l’Islam dovrebbe essere rinnovato grazie alla pratica interiore. Per l’ala più dura, bisogna combattere contro l’Occidente egemone, responsabile della decadenza dell’Islam e che governa l’attuale ordine socio-politico mondiale (ad esempio l’egiziano Muḥamamd al-Ġazālī, 1917-1996).  

Questo comportamento suscita affermazioni di identità nazionale, culturale o religiosa, come tattiche di autodifesa. Nel caso dei musulmani, l’attuale supremazia dell’Occidente è quella portata via all’Islam nella sua epoca d’oro.

Da Ali Merad (nel suo Le Califat) vengono citati come punti focali attuali per una ripresa del califfato i seguenti:
-            nostalgia dei tempi “mitici” dell’islam, che porta a magnificare l’esemplarità delle prime generazioni musulmane; 
-            bisogno di rafforzare la solidarietà e la resistenza dei musulmani di fronte alle nuove forme di avversità che si chiamano: egemonia occidentale, razzismo, islamofobia;
-            mistica dell’unità: una comunità islamica universale che aderendo alla causa del califfato, coopera alla realizzazione della “promessa divina” ( Q. 24, 55). 
Nel loro desiderio di vedere risorgere il califfato, i musulmani non tengono conto dell’evoluzione geopolitica e sociale. Sognano un califfato dei tempi dei Ben guidati, ma questa visioni è in contrato con il sentimento nazionalista e con le aspirazioni alle libertà individuali e ai diritti dell’uomo. 
Da qualche tempo, l’evidenza dimostra che la resistenza all’egemonia occidentale ha preso aspetti spaventosi attraverso le azioni di gruppi che si qualificano come fondamentalisti, estremisti sul piano religioso e di terroristi sul piano politico. Fra questi citiamo gli Shebab in Somalia, Boko Haram in Nigeria, la “galassia” di al-Qaïda (al-Qā‘ida), e infine il Daesh con la sua proclamazione dello stato islamico sotto un nuovo califfato autoproclamato. 

Molti musulmani hanno preso le distanze da questi gruppi, ma molti altri li sostengono, soprattutto finché contrasteranno gli interessi dell’Occidente, ritenuto colpevole delle umiliazioni inflitte ai musulmani. È questo forse l’unico punto che mette d’accordo i musulmani e fa dimenticare le loro divisioni interne. 
 Il peso del Colonialismo è molto sentito ancora oggi.

        
        
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-  ed. italiana : L’Islam. Fondamento e dottrina, Bruno Mondadori, Milano 2001

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