mercoledì 22 luglio 2015

DI RITORNO ALLA MONOLATRIA





DALLA MONOLATRIA AL MONOTEISMO: CI ABBIAMO GUADAGNATO CHE COSA?
Paolo Cugini


Sfogliano l’Enciclopedia Treccani alla voce monolatria dice: “Adorazione di un solo essere divino. Si distingue dal monoteismo in quanto non implica l’esplicita affermazione dell’unicità di Dio o la negazione di altre divinità. Si può parlare di monolatria temporanea nel caso in cui, come in certi inni vedici e salmi penitenziali babilonesi, l’esaltazione del dio adorato arriva al punto di negare l’importanza degli altri dei; e di monolatria duratura, nel caso in cui il dio protettore di un popolo accentra in sé tutti i valori sacrali e diventa unico dio adorato da quel popolo, che però ammette che altri popoli abbiano i loro dei. Secondo una teoria, lo yahwismo ebraico sarebbe stato una monolatria prima di diventare monoteismo”. Gli ebrei, allora, adoravano il dio della loro città e non negavano gli dei delle altre città.
Ogni città aveva il suo dio tutelare, come Atena per Atene, e così via. C’è quindi una distinzione importante da fare, vale a dire che la monolatria non è l’idolatria. La monolatria è questo respiro ampio che non nega il modo di pregare dell’altro, non gli dà fastidio, lo lascia fare, lo lascia vivere. Non i tratta appena di tolleranza, ma di lasciar respirare l’altro, lasciarlo esprimere. Unico Dio con tante manifestazioni diverse di riconoscerlo, di pregarlo. Nella monolatria non c’è un culto uniformato, una liturgia unica e, soprattutto, una classe sacerdotale che impone un’unica ritualità.  La monolatria in Israele dura circa 800 anni. Aiuta a portare l’esperienza di Dio in tutti i luoghi, rispettando le diverse culture.

Quand’è nato il monoteismo nella storia d’Israele? Ci sono due teorie. Alcuni sostengono che sia nato all’epoca delle riforma di Giosia, nel 620 a. C. La famosa riforma di Giosia narrata dal secondo libro dei Re, sembra mossa più da esigenze politiche, che religiose. Sembra, infatti, che a spingere Israele verso un culto unificato di JHWH, sia stato il desiderio di raccogliere le forze economiche, che erano disperse nei vari santuari sparsi sul territorio, per tentare di costruirsi come impero. La pressione degli imperi Assiri, Persiani, Egiziani soprattutto, hanno stimolato il desiderio di costituirsi come impero, non solo per proteggersi dai nemici, ma anche per espandersi, aumentare il proprio raggio d’influenza. Altri sostengono che Il monoteismo ebraico sarebbe nato all’epoca dell’esilio, quando gli esiliati sono entrati in contatto con altre civiltà, come quella sumerica e persiana. Gli ebrei per mantenere la propria identità contro la cultura babilonese, hanno trasformato la loro religione da monolatria in monoteismo. Da questa esperienza è nata l’dea di Babilonia come madre dell’idolatria e del peccato.

La monolatria è, dunque la fede in unico Dio che però non esclude altri. E’ un Dio inclusivo, al contrario dell’esclusività del monoteismo che, per definizione, non accetta concorrenti. La monolatria porta alla convivenza delle diversità, mentre l’idolatria porta allo sterminio degli altri dei, e alla distruzione di tutti i luoghi di culto contrari all'unico Dio. La monolatria comincia a dar fastidio quando qualcuno si sente più religioso dell’altro e quando qualcuno comincia a non sopportare la pluralità delle espressioni religiose. La monolatria disturba i progetti espansionistici dell’impero. Soprattutto, però, la monolatria aiuta a pensare, mantiene aperto il pensiero sulla realtà che è plurale, fatta di tanti colori e non solo del bianco e dà fastidio a coloro che non riescono a vedere che un colore. Monoteismo è sinonimo di monotonia, di desiderio di addormentare il mondo con un’unica storia, un’unica narrazione che esige il consenso di tutti.

 Mentre la monolatria si alimenta della diversità e, per certi aspetti la produce lasciandola libera, il monoteismo la disprezza, perché la percepisce come una minaccia alla propria identità. E allora, mentre la monolatria si costruisce sulla diversità, il monoteismo si rafforza annichilendola, facendo il deserto attorno a sé.  Famose sono le pagine della Bibbia che testimoniano lo sforzo d’Israele di imporre il monoteismo. Mentre la monolatria genera un mondo di armonia tra le diversità e quindi apre cammini di pace, il monoteismo, al contrario, è segnato dalla violenza, dal sangue, dalla distruzione del contrario. E’ il cammino dell’imposizione di un unico modello, che non accetta concorrenti. Spesso la Bibbia ci ricorda che JHWH è un Dio geloso, che non tollera l’adorazione ad altri dei. Sono pagine come queste che testimoniano non solo che il passaggio tra la monolatria e il monoteismo sia già avvenuto, ma che nonostante tutto, il popolo vive ancora una tendenza monolatrica.

Viene da chiedersi: che cosa ci abbiamo guadagnato con il monoteismo? Non era meglio la monolatria? Non possiamo tornare indietro? Sfogliando le pagine della storia scopriamo che tante guerre sono state provocate dal monoteismo, dall'idea di un solo Dio, un Dio più giusto e vero dell’altro che, per questo, non può convivere con nessuno e, di conseguenza, esige lo sterminio del nemico. Di un Dio così preferisco fare a meno e, onestamente, mi sembra terribilmente umano, anzi, disumano, e cioè emerso ed elaborato dalla parte peggiore dell’uomo, di quell'uomo che vuole sopraffare l’altro.  A me sembra che Gesù fosse più monolatrico che monoteista. Il suo insegnamento non incitava certamente alla violenza contro le diversità, ma ad un cammino di conversione personale che deve condurre alla capacità di accettare l’altro, di convivere con la diversità. Il monoteismo plasma persone intolleranti, incapaci di accettare le forme religiose diverse, mentre la monolatria conduce all’armonia delle differenti manifestazioni di culto.

Recuperare il respiro monolatrico, che sa convivere con l’altro, è forse uno dei grandi compiti che ci attendono.


lunedì 13 luglio 2015

ESERCIZI SPIRITUALI 2015





UNITA’ PASTORALE
REGINA PACIS, SPIRITO SANTO, RONCINA, CODEMONDO, SAN BARTOLOMEO

ESERCIZI SPIRITUALI  2015

GIOVANI DELLE SUPERIORI
11-13 SETTEMBRE: SANTO STEFANO DI VETTO
TEMA: ERANO UN CUOR SOLO E UN’ANIMA SOLA. L’IDENTITA’ DEL GIOVANE CRISTIANO: RIFLESSIONI SU ATTI 2-4
Costo: 25 euro
Partenza: ore 18 dell’11/9
Ritorno: ore 15 del 13/9

GIOVANI UNIVERSITARI-LAVORATORI
8-11 OTTOBRE: SANTO STEFANO DI VETTO
TEMA: AMICI DEL SIGNORE. LA COMUNIONE NELLA CHIESA: RIFLESSIONI SU GIOVANNI 14-17
Costo: 35 euro
Partenza: ore 18 dell’8/10
Ritorno: ore 15 del 11/10


ADULTI
27-30 AGOSTO: MAROLA
TEMA: LA CHIESA DELLE BEATITUDINI. RIFLESSIONI SU MATTEO 5-7
Costo: 110 euro
Partenza: giovedì 27 dopo cena
Ritorno: domenica 30 dopo pranzo

-          I tre corsi degli Esercizi spirituali saranno predicati da don Paolo Cugini
-          Le iscrizioni si fanno nella segreteria della parrocchia di Regina Pacis

CHE COSA SONO GLI ESERCIZI SPIRITUALI?
Leggendo questo avviso molti si chiederanno: che cosa sono gli esercizi spirituali? Sono un tentativo d’imitare lo stile di Gesù, che spesso e volentieri ricercava momenti prolungati di silenzio per stare solo con il Padre. Momenti di silenzio che Gesù proponeva anche per i suoi discepoli e discepole: “Venite con me in disparte a riposare un po’” (Mc 6). Una parrocchia o un’Unità Pastorale propone quest’esperienza spirituale per permettere ai fedeli di fermarsi un po’ a prendere fiato, a fare un po’ d’ordine dentro di se, ad approfondire il senso della propria vocazione e del proprio cammino. Per questo la chiesa è solita dire che gli esercizi spirituali sono un tempo propizio per il proprio cammino di fede, per rafforzare le proprie convinzioni e le proprie scelte. Gli esercizi spirituali non sono un campeggio o una scampagnata, ma un’esperienza che vuole essere esclusivamente spirituale. Per questo motivo per funzionare gli esercizi spirituali hanno bisogno di alcuni ingredienti fondamentali:

Il primo è il desiderio di conoscere Dio. Non è una scelta di gruppo partecipare agli esercizi spirituali, ma personale, anche perché sono un’esperienza impegnativa e, in alcuni casi difficile. Non è facile, infatti, uscire da una spiritualità tutta incentrata su se stessi per porre al centro Dio, la sua Parola. Conoscere Dio è allora il desiderio che deve muovere una persona verso un’esperienza come gli Esercizi Spirituali, perché è in un simile contesto che è possibile maturare una relazione nuova con Dio, più profonda e più vera.

Il secondo è la Parola. Durante gli Esercizi Spirituali il testo privilegiato di riferimento è la Parola di Dio. Dedicare tempo alla Parola significa uno sforzo di comprensione verso una proposta che spesso e volentieri conosciamo appena per sentito dire. Confrontarsi con la Parola di Dio, con le sue proposte esigenti significa essere disposti ad essere messi in discussione e a lasciarsi destabilizzare.
Il terzo è il silenzio. E’ impossibile vivere una profonda esperienza con Dio senza la disponibilità al silenzio. Lo stesso Gesù si ritirava in luoghi deserti per pregare. Il clima degli Esercizi Spirituali è immerso nel silenzio per permettere alle persone che vi partecipano di entrare in se stesse e di meglio percepire la voce del Signore.


Coloro, quindi, che stanno cercando il Signore, che stanno amando la sua Parola e, per questo, cercano il silenzio sono i benvenuti a questi corsi di Esercizi Spirituali 2015. Buon cammino!

giovedì 9 luglio 2015

PER UNA NUOVA RITUALITÀ




VERSO L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO

Paolo Cugini



Una sana secolarizzazione
Non tutto il male viene per nuocere. Quando si parla di cambiamento epocale spesso e volentieri ci si sofferma sui lati negativi, soprattutto in campo religioso. Mi sembra, invece, che la nuova prospettiva culturale, che da alcuni decenni si sta aprendo sotto i nostri occhi, offra nuove possibilità anche per il mondo religioso. E allora ci si può chiedere: che cos'è essenziale nei riti religiosi? I riti sono l’attualizzazione del mito originario. Attraverso il rito, ci ha ricordato il grande filosofo della religione Mircea Eliade, le persone di tutti i tempi possono partecipare dell’energia divina scaturita dalla manifestazione del Sacro in un’epoca specifica. I riti cristiani, nel loro apparire, sono sorti grazie anche allo sforzo d’inculturazione operato dai padri della chiesa, con il tessuto religioso del tempo, vale a dire le religioni misteriche. L’essenza del messaggio cristiano è stato trasmesso, così, attraverso riti inculturati. Questo processo d’inculturazione è avvenuto costantemente nei secoli. Basterebbe sfogliare i libri liturgici, come hanno fatto negli ultimi decenni gli storici della liturgia, per accorgersi di come la forma dei riti sia cambiata nei secoli in corrispondenza di cambiamenti culturali. C’è un aspetto dei riti che il fenomenologo della religione Van der Leeuw ha messo in evidenza, vale a dire la manifestazione di Dio come potenza e presenza. Ciò significa che nei riti ciò dovrebbe essere messo ben in evidenza sia nei simboli coinvolti, che nella realizzazione del rito stesso.


La potenza di Dio manifestata e compresa da Gesù
Sulla presenza del Sacro nei rituali cristiani non mi soffermo. M’interessa, invece, riflettere sul modo di presentare la potenza di Dio nei rituali cattolici. Per cogliere il senso di ciò che intendo dire è importante anche capire lo specifico di questa manifestazione così come si è presentata in Gesù Cristo. E’ Lui, infatti, il cuore e il centro di tutta la liturgia: tutto fa riferimento a Lui e tutto converge in Lui. Chi entra in una liturgia cattolica dovrebbe poter sentire la sua presenza e la sua potenza. Potremmo allora chiederci: così com'è narrato nei Vangeli che tipo di potenza di Dio Gesù ha manifestato? Meglio ancora: in che modo Gesù ha deciso di manifestare la potenza di Dio, la sua Gloria come segno della sua presenza? Ci sono molti testi che possiamo richiamare, molte situazioni significative, ma me ne bastano solo alcune. In primo luogo la nascita. Mentre Israele si aspettava un re potente, con i segni regali di una potenza terrena, Gesù è venuto al mondo nell'umile mangiatoia di Betlemme. Una scelta davvero imbarazzante, che ha spiazzato tutti e che ha costretto l’umanità ad entrare in ciò che Dio con una simile scelta voleva dire. Lo stesso imbarazzo lo si trova alla fine della vita di Gesù, vale a dire nell'ultima cena. Nella narrazione di Giovanni Il testo dice che: “Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle sue mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita” (Gv 13,2-3). Sappiamo bene che cosa fece Gesù quella sera, e cioè lavò i piedi ai discepoli invitandoli poi a fare altrettanto tra di loro. Un gesto simbolico che mostra il modo di Gesù d’intendere il potere di Dio, non come dominio sugli altri, ma come servizio gratuito e disinteressato. La stessa idea Gesù l’aveva espressa anche in un altro contesto, vale a dire, il momento nel quale la madre di Giacomo e Giovanni, aveva chiesto che i suoi figli sedessero alla sua destra e alla sua sinistra nel suo regno. Sottesa alla richiesta della madre c’è l’incomprensione della missione di Gesù, del significato autentico del suo regno e delle aspettative mondane su di Lui. “Tra di voi non sarà così” (Mt 20, 26). Se nelle logiche del mondo i governanti dominano i subalterni e il potere si esprime con la forza e la capacità si umiliare chi si ritiene inferiore, generando la divisione tra gli uomini e le donne, ben diverso è il modo di esercitare il potere da parte di Gesù. “Chi vuole diventare grande tra di voi sarà il vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra di voi sarà il vostro schiavo” (Mt 20, 27).

Per una ritualità più evangelica
Nei riti cristiani la potenza di Dio così come Gesù l’ha manifestata, dovrebbe trovare il cammino della semplicità, della sobrietà, dell’essenzialità e del servizio umile. Questo aspetto è importante perché il modo d’intendere il potere ha ripercussioni anche e soprattutto sul tipo di umanità che genera. Infatti, l’idea di potere così come la esprimono i potenti della terra, genera un mondo disuguale, diviso tra forti e deboli, tra pochi ricchi potenti e una moltitudine di poveri nullatenenti. Il modo d’intendere e di vivere il potere da parte di Gesù crea, invece, un’umanità di uguali, dove tutti essendo figli e figlie di Dio, hanno gli stessi diritti e doveri. Questo stile di vita Gesù l’ha vissuto per primo creando una comunità di discepoli e discepole uguali. Ecco perché l’Apostolo Paolo meditando su queste cose arriva a dire che d’ora inanzi “non c’è Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero, non c’è uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28). E’ proprio questa umanità nuova, dove le distinzioni non esistono più e dove diviene visibile la fraternità e l’uguaglianza che viene ben espressa nella prima comunità cristiana, così come Luca la racconta. “Erano un cuor solo e un’anima sola” (Atti 4,32).

Nella liturgia dovrebbe essere visibile questo modo diverso d’ intendere ed esercitare il potere da parte di Gesù, deve cioè essere visibile per chi vi partecipa che davanti a Dio siamo tutti uguali che Dio, come ricorda Pietro negli Atti, non fa distinzioni di persone (Atti 10, 34). Purtroppo, però non è così, ma è ben visibile il contrario. I riti cristiani marcano una netta differenza tra sacerdoti e fedeli. Lo si vede benissimo dalle vesti e dagli spazi che occupano. Lo si vede anche dagli atteggiamenti che veicolano un certo modo d’intendere la spiritualità. Come si fa a coltivare il culto della personalità, come purtroppo ancora oggi avviene, tenendo come punto di riferimento Gesù che, come ci ricorda Paolo (Fil 2,5-11), si è abbassato, si è umiliato per servire noi? Com'è potuto avvenire un simile travisamento? Perché l’Agnello immolato, che è venuto povero e che si è abbassato per servire i suoi discepoli, viene rappresentato come un qualsiasi potente del mondo? Come si fa a non capire, a non cogliere la palese contraddizione? Come si fa ancora oggi ad andare su questa strada evidentemente sbagliata e che ha conseguenze devastanti sia sul piano spirituale che sociale?

 Sappiamo dalla storia come la seconda fase dell’inculturazione del cristianesimo sia avvenuta a partire dal 313, quando è divenuto la religione dell’Impero. Ed è proprio la liturgia a mostrare i segni di questo processo d’inculturazione, assimilando i segni del potere regale e temporale sia nei modi che negli abiti e negli oggetti liturgici. In pochissimi decenni i rituali, che dovevano rappresentare il potere di Dio manifestato nelle scelte di Gesù tutte contraddistinte dall'umiltà e dal servizio, divengono manifestazioni di un potere mondano e regale. Sfogliando le pagine dei libri di storia della liturgia non viene nascosto il fatto che gli abiti liturgici vengono mutuati dall’Impero. E così, il Gesù umile servo innocente viene rivestito con i segni dell’arroganza temporale del mondo. Coloro che nei riti dovevano simbolizzare l’umiltà del Signore, che da ricco che era si fece povero e che rifiutava i titoli regali e mondani, non lesinarono di farsi chiamare con i nomi altisonanti dei potenti del mondo. Che senso ha che un ministro di Dio si faccia chiamare sua eminenza, sua santità, monsignore, don e roba del genere? Non è evidente la contraddizione? Non è la peggiore delle bestemmie?


Un’occasione da non perdere
La secolarizzazione che la post-modernità sta accentuando giorno dopo giorno rende sempre più evidente il contrasto tra il Vangelo, tra ciò che Gesù ha comunicato con le sue parole e il suo esempio, e la pompa dei riti che dovrebbero rappresentarlo, ma che invece lo deturpano. Quello che sto scrivendo non sono cose nuove. Già nel Concilio Vaticano II, infatti, si era discusso su questo problema veramente centrale. Vari vescovi, tra i quali Lercaro ( allora vescovo di Bologna) e Herder Camara (presidente della Conferenza Episcopale Brasiliana e vescovo di Olinda e Recife), avevano cercato di proporre una riforma della liturgia che andasse sulla strada che sto descrivendo, abbandonando cioè in un modo definitivo tutto ciò che allontana dal Vangelo. Che cosa c’entrano gli ori, le vesti piene di ornamenti, i titoli altisonanti con la semplicità di Gesù? Ancora più stridente, però è il contrasto tra la scelta umile di Gesù, il suo modo d’intendere e comunicare il potere di Dio con lo stile mondano e imperiale che nei secoli ha preso piede nella liturgia cattolica e non lo molla più. Sono convinto che sia un discorso molto delicato e che può ledere la sensibilità religiosa di molti fedeli abituati ad identificare la liturgia con ciò che hanno sempre vissuto e visto. Vale la pena, però a mio avviso, approfittare di questo tempo di sano secolarismo, per rimettere le cose a posto, aiutare a compiere quel cammino che permetta di realizzare una liturgia più evangelica, più fedele a quello che Gesù ha detto e fatto e che può contribuire a costruire un mondo più giusto e pacifico. Se tanta gente nel mondo Occidentale si è allontanata dalla chiesa è anche per questo motivo, perché non capiva che cosa c’entrasse tanto oro con la proposta di essenzialità di Gesù; non capiva e continua a non capire cosa c’entrassero tanti pizzi e tante vesti sontuose di stile imperiale, con colui che è venuto al mondo in una mangiatoia e che durante la sua vita terrena non aveva nemmeno un cuscino per poggiare il capo.